Escalation
Non avevo ancora ascoltato il ministro degli Esteri Tajani parlare di “rischio di escalation”. Ma l’avrà fatto come prima, più di prima. Come l’8 ottobre del 2023 quando Hamas fece strage di uomini, donne e bambini in Israele e la posizione italiana, assieme all’inevitabile condanna, fu ispirata alla necessità di “evitare l’escalation”. E così quando Netanyahu si mise a bombardare Gaza l’imperativo di Tajani fu “escalation da evitare”. Col verbo post posto. Volete che non abbia pronunciato quella parola ieri? Lui più precisamente ha auspicato una “de escalation”. Ci voleva. Cioè l’Italia non si schiera né a favore né contro Israele e i bombardamenti in Iran, ma per la “de escalation” come ha ripetuto anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Comprendo bene che per condizioni geo politiche l’Italia sia un paese particolarmente a rischio, tanto che coi terroristi ha quasi sempre trovato un’intesa, vedasi il lodo Moro degli anni settanta. D’altronde l’Italia, il paese delle stragi e del terrorismo rosso e nero, avrebbe potuto divenire anche un campo di battaglia di proporzioni ben più luttuose di quelle conosciute negli anni di piombo. Ma adesso la situazione internazionale ë cambiata. Forse in peggio. Esiste una Russia più aggressiva dell’Urss, un’America che se ne sbatte dei problemi del mondo e pensa solo a se stessa e un’Europa ancora sulla carta. Intanto Iran e Israele si sparano addosso missili che, se fanno morti a Teheran, anche innocenti, non ne fanno (solo feriti) a Tel Aviv grazie al sistema difensivo israeliano. Personalmente non sono stupito dell’attacco israeliano a Teheran. Un’azione analoga era già avvenuta 44 anni fa quando Begin, primo ministro israeliano, bombardò e demolì il reattore nucleare iracheno voluto dal dittatore Saddam Hussein. Lo ricorda opportunamente oggi sul Corriere Davide Frattini, che cita altri due episodi che testimoniano l’attualità della teoria Begin (nessuno stato nemico di Israele dovrà dotarsi di armi atomiche): ciò che avvenne durante la guerra dei sei giorni del 1967 e il raid in Siria del 2007 per annientare le ambizioni atomiche di Assad. Poi, che Israele abbia voluto affrettare l’attacco per non permettere a Trump di incontrare gli emissari di Teheran (l’incontro era fissato per domani) può anche essere, anche se l’ultimatum dato da Trump era scaduto ieri l’altro, ma che l’attacco fosse stato minuziosamente preparato da molti anni, pare addirittura da otto, questo risulta innegabile. Israele ë convinta, e come darle torto, che l’Iran sia la potenza del Male, che alleva e finanzia Hamas (a proposito della strage de 7 ottobre il governo iraniano ha parlato di eroici combattenti inneggiando al massacro degli ebrei, mentre ha fissato in un orologio ubicato in una piazza della capitale iraniana la data in cui Israele deve scomparire, e cioè il 2040). Anche gli Hezbollah e gli Houthi sono supportati da Teheran, che si ë posta così alla testa dei movimenti armati che vogliono la distruzione di Israele. Ora, l’azione di Israele, sarà coronata da successo se otterrà la “regime change”, se il popolo iraniano si ribellerà ponendo fine a quella barbara teocrazia e se i paesi medio orientali, prima di tutte la sunnita Arabia Saudita, perché Giordania ed Egitto già sono suoi alleati, appoggeranno la nuova situazione. Se invece, la popolazione, quella che pure odia il regime degli ayatollah, avvertirà un senso di sconforto per le vittime innocenti che il conflitto é destinato a seminare e reagirà con un imprevedibile spirito nazionalista e con un nuovo afflato panarabista l’affiancheranno le altre nazioni, Israele avrà fallito e le sue bombe saranno servite solo a sfracellare i siti nucleari che poi rivedranno immancabilmente la luce. Se non fosse tragedia sarebbe commedia il ruolo da mediatore impersonato da Putin che ha definito il bombardamento israeliano contrario al diritto internazionale al trattato delle Nazioni unite. Mi viene in mente lo strascicato detto di Petrolini: “Bene, bravo, bis”.
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