Altro che sinistra alla Voltaire
Sono oggetto di una sequela di insulti e anche di una esplicita minaccia, davvero inaspettata, in un blog di un giornale su Internet di Reggio Emilia, ove peraltro si scrive che i commenti devono essere moderati e passano al vaglio della redazione. Mi tutelerò. Il reato che mi si imputa è di avere partecipato alla presentazione di un libro sulla Repubblica sociale scritto da uno storico di destra, Luca Tadolini, assieme al giornalista Pierluigi Ghiggini. Avevo ricevuto, già prima che mi recassi a Vetto, dove il dibattito ha avuto luogo, alcuni consigli, per la verità gentili, di non andare. Ho ritenuto che l’andare fosse assai più dignitoso che il disertare. Anche perché, in generale, ritengo finito il tempo delle discriminazioni (avevo già partecipato, assieme a storici di sinistra, a dibattiti con Tadolini senza che nessuno avesse mai avuto di che dire). E poi non sono mai stato tipo che, con un microfono in mano, si lascia condizionare dalla platea, altrimenti a Reggio (vista la minorità dei socialisti) non avrei dovuto parlare quasi mai. Al dibattito (di fronte a un pubblico numeroso e generalmente composto da sostenitori politici di Tadolini) ho espresso i seguenti concetti. 1) Il mio giudizio storico e politico sulla Resistenza, a differenza di quello di Tadolini, è positivo. La Resistenza ha rappresentato un fenomeno che almeno in parte ha saputo riscattare l’adesione al ventennio nero da parte di larga parte del popolo italiano e soprattutto è stata la necessaria reazione all’invasione nazista dell’Italia dopo l’armistizio firmato dal governo Badoglio l’8 settembre del 1943. 2) Questa necessaria premessa politica non significa assolvere tutti gli atti compiuti durante la Resistenza. Vi fu una guerra civile tra italiani e gli odi, gli atti di sangue inconsulti e le vendette caratterizzarono una lotta che fu aspra e dura e cruenta forse anche oltre misura. Si verificarono episodi riprovevoli e alcuni davvero orrendi compiuti anche da chi lottava dalla parte giusta. Difendere la Resistenza non significa negare queste deprecabili azioni, ma separarle dal significato storico e politico della lotta di Liberazione. Questa opinione l’avevo già manifestata e approfondita con il libro “Storia di delitti e passioni” (Reggio E 1995) e già, prima ancora, con la relazione al convegno “Perché la verità della storia diventi storia della verità”, che si svolse nel settembre del 1990 a Reggio Emilia, poi pubblicata nel volume “La Resistenza tradita” (Roma 1990), nella quale ultima avevo testualmente affermato che “nella distinzione la Resistenza è esaltata, nella confusione essa è oscurata”. 3) Il contributo anche di uno storico di destra può essere rilevante. Non credo infatti alla storia scritta solo dai vincitori, perché essa si presenta quasi sempre come una sua versione incompleta. Naturalmente anche quella scritta da vinti generalmente lo è. Tuttavia che vi siano ricercatori di fronti opposti e di ideologie così distanti a me pare non sia un male per la ricerca storica. Anzi, da una equilibrata selezione, o da un’intelligente sintesi, si può arrivare a quella storia condivisa della quale ancora è carente l’Italia. 4) Vi è un episodio, del quale molto si è parlato a Vetto, riferito all’uccisione di un medico locale, Pietro Azzolini, avvolta ancor oggi nel mistero. Non ne conosco le motivazioni e le responsabilità. Ho preso atto dell’esigenza proposta dai discendenti, presenti al dibattito, di scoprire la verità e ho garantito anche il mio impegno in questa direzione. Tutto questo ha determinato i crucifige, le offese, le minacce. Quel che ho detto, in realtà, non interessa. Anche perché i protagonisti di questo teatrino dell’assurdo non erano certo presenti al dibattito di Vetto. Interessa che io sia andato e che nel contempo sia anche assessore a Reggio e soprattutto che io stato e sia tuttora un dirigente socialista. Sull’andare ho già detto, sul fatto d’essere assessore non lo nego, ma non mi pare tuttavia sufficiente per farmi cambiare opinione né su questa né su altre vicende storiche. Ammetto, infine, d’essere sempre stato e d’essere tutt’ora un dirigente socialista. D’esserlo stato quando altri erano invece comunisti o di Lotta Continua, o di Potere operaio. D’essere stato riformista ante litteram, quando era, questa sì, una colpa grave, mentre oggi è diventata una virtù di tanti. E questo mi pare al fondo di tutto il reato più grave che mi viene rimproverato. Peccato che io lo consideri un grande merito. D’altronde prendo atto che l’avere anticipato quasi tutte le evoluzioni della sinistra italiana continua a rappresentare un segno distintivo poco raccomandabile. L’unica evoluzione, e non è cosa da poco, che la cultura delle mia tradizione politica non è riuscita a trasmettere a tutti è quella della libertà. Proprio la tendenza che si ispira alla famosa massima di Voltaire: “Non credo a quel che pensi, ma combatterò fino al prezzo della morte perché tu lo possa affermare”. A giudizio dei violenti di sinistra l’avversario resta un nemico da annientare. E chi non la pensa esattamente come loro è un nemico. Da offendere, da minacciare. Sono pochi costoro? Sono un gruppo di esagitati? Spero di sì, ma non ne sono così sicuro.
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