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Il 1992 socialista, seconda puntata

12 Settembre 2016 2.051 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

L’ex Pci tra passato e presente, il Psi rinvia al 1992

La vittoria socialista alle elezioni del 1990, ma cos’è questa Lega?

Il congresso del Pci che si svolse a Bologna nel marzo commosse la platea e il pianto di Occhetto (simile a quello della Fornero) resterà a lungo nella memoria dei militanti. Rinunciare a quel nome e a quel simbolo non era facile. Anche se nessuno glielo aveva ordinato. Si trattava di una scelta politica, per di più compiuta dopo che i comunisti dell’Est avevano già cambiato i loro nomi e dopo che il comunismo era crollato ovunque in Europa. Una scelta, dunque, neppure originale e fatta in ritardo. A quel congresso partecipai anch’io nella delegazione del Psi in quello storico palasport di piazza Azzarita. La palla Occhetto non la lanciò a canestro. Rinviò il tiro. Era un antipasto quel congresso dove si doveva solo decidere di dare il via a una fase costituente per la formazione di un nuovo partito, che tradotto dal politichese occhettiano significava sancire il cambio del nome e del simbolo con un altro percorso congressuale. Ne uscì un partito senza nulla. Una cosa nuda, dunque. Un partito che aveva solo segnato il suo nuovo inizio. E noi, il Psi, eravamo osservati speciali. Devo dire che Craxi non venne accolto male. Anzi, una certa curiosità si riversò su di lui e su di noi. Eravamo considerati come interlocutori politici. Potevamo lanciare loro qualche segnale di interesse e disponibilità, che Craxi non lesinò, sia pur timidamente, e tra lunghe e sofferte pause. Occhetto volle insistere sulla linea nuovista e affermò un’inesattezza storica e politica non occasionale. E cioè che il partito della sinistra che doveva nascere era il primo che avrebbe conciliato equità e libertà. E noi chi eravamo? Figli di nessuno? Il Psi nella sua storia che cosa aveva fatto, per quali valori si era battuto con Turati, Nenni e Saragat? L’idea di Occhetto era astorica. Era il nuovo inizio che negava non solo il passato suo, ma quello di tutti. Era la tabula rasa decretata alla politica in attesa che dal ventre del vecchio partito si partorisse il nuovo, con quello stile retorico e anche un po’ tronfio che caratterizzava la sua oratoria. E questo era francamente inaccettabile. E preoccupante. Più tardi, a seguito di un incontro tra Craxi e Occhetto, quest’ultimo confiderà al segretario del Psi d’essere propenso ad accettare l’unità socialista, ma gli rivelò che c’era D’Alema che gli remava contro e che preferiva accordarsi con la Dc piuttosto che con lui. Il passato e la sua rielaborazione erano intanto prepotentemente subentrati nel film di Giuseppe Tornatore “Nuovo cinema Paradiso” che inaspettatamente vince l’Oscar. Il film era dedicato alla storia di un cinema di paese, che un nome invece ce l’aveva e anche particolarmente impegnativo.
Il presidente della Camera Nilde Iotti festeggia a Reggio Emilia il suo settantesimo compleanno con un emozionante ritorno a casa. Anche la Iotti, che pure da presidente della Camera preferiva astenersi dal dibattito politico e soprattutto dagli scontri di corrente, appoggiava la linea di Occhetto e ancor di più quella dei suoi vecchi amici Napolitano e Macaluso. Devo dire che come presidente della Camera era davvero eccellente, imparziale e autorevole. Anche Luciano Lama era convinto di quella linea. D’altronde da tempo, alla guida della Cgil, era schierato per una politica riformista. Ma ormai con l’avvento della primavera si iniziava la campagna elettorale per le regionali e le amministrative. E a Reggio, come a Bologna e in Regione, quella consultazione si configurava come decisiva. Dovevamo portare il Pci, o la cosa, come si chiamava dopo il congresso di Bologna, l’innominato dunque, che però si presentava col vecchio nome e simbolo, sotto la maggioranza assoluta e incrementare e di parecchio i consensi al Psi. Come capolista designato dal Comitato direttivo subito dopo le europee, mi feci carico anche di comporre una lista particolarmente competitiva.
Nel marzo a Rimini si svolge la conferenza programmatica del Psi (la seconda della città romagnola) che non ha certo il fascino della prima. Tuttavia da Rimini partono alcune indicazioni sui temi del federalismo e del presidenzialismo che saranno ancora al centro dell’attenzione. Panseca ci mette ancora del suo col muro (di Berlino) che crolla sul palcoscenico. E per quanto mi riguarda svolgo l’introduzione nella sessione dedicata all’ambiente. Il 23 aprile è a Reggio Claudio Martelli che riempie d’incanto il cinema Ambra con oltre un migliaio di socialisti venuti d’ogni dove. E li intrattiene approfondendo da professore e da tecnico il rapporto tra presidenzialismo e federalismo senza suscitare entusiasmo in un pubblico potenzialmente entusiasta. Poco dopo arriva anche Pierre Carniti a parlare di innovazione e solidarietà. E a sette giorni dal voto promuoviamo un’assemblea in cui mi candido ufficialmente a sindaco di Reggio, rivelando d’essere anche pronto a rinunciare al mandato parlamentare. Si trattava di un argomento che poteva influire sull’esito del voto, visto che la perdita della maggioranza assoluta del Pci veniva data quasi per scontata. La sera del lunedì post elettorale iniziano ad arrivare i primi dati sulle regionali che registrano un aumento socialista sulle regionali precedenti, ma una lieve perdita sulle europee. È un dato che contraddice quello nazionale che segna invece una lievitazione generale del nostro risultato.
È un problema del Nord. Emerge infatti il dato della Lega che avanza ovunque, prelevando voti alla Dc e al Pci e, sia pure in misura minore, anche al Psi. Non era certo una sorpresa per me, visto che a Pavia, dov’ero ancora commissario del Psi e dove il partito aveva addirittura superato il 18% dopo una guerra all’ultimo sangue dei candidati al Consiglio regionale, la Lega era già diventata un fenomeno di massa. Quei manifesti sui lombardi che dovevano pagare e tacere e su Roma ladrona, avevano fatto breccia. Esisteva una questione settentrionale, del popolo dei ceti medi e delle partite Iva che non sopportava più un sistema politico come il nostro e si era rivolto altrove. In fondo, il muro di Berlino era caduto e con esso la paura del comunismo e allora si era liberato anche il voto. Nessuno doveva più votare con il naso turato. La Lega nasceva sulla questione fiscale più ancora che sui problemi dell’immigrazione e della sicurezza. E la protesta aveva generato un afflusso di voti generalizzato in tutto il Nord, e non più solo in Lombardia, per il partito di Bossi. Nella provincia di Reggio affiorava un 4,5% di media in tutti i comuni, qualcosa in più nella bassa e qualcosa in meno in montagna, con un consigliere provinciale e due consiglieri comunali (tutti sconosciuti) eletti nel Comune di Reggio. Il Psi anche in Provincia aumentava rispetto alle precedenti elezioni, ma non rispetto alle europee, mentre nel Comune di Reggio l’avanzata era cospicua e generale e il Pci crollava e perdeva la maggioranza assoluta, cosa che era avvenuta, anche se in termini meno evidenti, anche in Provincia, a Modena e in Regione. Ma andiamo con ordine. Il risultato nazionale del Psi alle regionali era stato positivo: il 15,4%. Cioè il partito aumentava di tre punti sul dato regionale del 1985 e solo dello 0,6% sulle europee. Con un corposo aumento al Sud, un’avanzata discreta al Centro e un leggero regresso sulle europee al Nord. Il Pci crollava al 24,1% con quasi sei punti in meno delle regionali precedenti e tre punti in meno delle europee, la Dc teneva un discreto 33,5% (solo meno 0,3% rispetto alle regionali precedenti e più 0,6% sulle europee). La Lega saliva improvvisamente al 5,4% nazionale col Nord nel quale superava il 15% e in molte zone della Lombardia diventava addirittura il primo partito.
Nella provincia di Reggio il Pci scendeva al 47,8% (aveva il 52,4% alle regionali precedenti e il 50, 8% alle europee), mentre il Psi guadagnava un consigliere e per la prima volta eleggeva anche un consigliere regionale (Nando Odescalchi).
Diciamo la verità. La battaglia era vinta per il Comune di Reggio e in generale per le comunali, dove il partito superava il 18 per cento a livello nazionale, ma il dato politico non era entusiasmante. Anzi, quell’erosione da parte della Lega di fette di elettorato socialista al Nord era davvero un primo campanello d’allarme, anche se per il momento il fenomeno leghista intaccava molto di più i serbatoi comunista e democristiano. Certo quel dato della Lega impediva all’onda socialista di diventare davvero lunga.
Si apre però una fase decisamente nuova. Dopo il crollo del muro, l’annuncio del cambio del nome e del simbolo da parte del Pci, le elezioni del 1990 che avevano segnato il pericolo Lega, la politica pare improvvisamente liberata da lacci e vincoli del passato. E forse anche questo il gruppo dirigente nazionale del Psi non afferrò pienamente. Anche in Emilia, anche a Reggio il Psi diventava davvero un partito con ruoli significativi. Col presidente della regione Enrico Boselli, i socialisti divennero determinati in tutte le città capoluogo. Potevamo vantare, a Reggio Emilia, il presidente dalla provincia, due assessori provinciali, il vice sindaco e la parità di assessori socialisti e comunisti nel Comune capoluogo (il 13,2 per cento ci aveva regalato sette consiglieri, ricordo che quando cominciai a fare politica, nel 1971, il Psi aveva il 6% e soli tre consiglieri), dieci sindaci nei comuni della provincia, oltre 4.500 iscritti. Eravamo un partito forte, rappresentativo e determinante nel governo e nella società reggiana. Eppure avvertivamo il rischio che, dopo la vittoria, si potesse d’un tratto indietreggiare, magari sentendoci appagati, che si dovessero fronteggiare tutti i pericoli che la nuova situazione presentava anche a noi. Il risultato della Lega e quei due consiglieri comunali che sembravano impiegati di banca che avevano sbagliato aula, erano un evento su cui riflettere attentamente. L’onda lunga rischiava di infrangersi sugli scogli del mare del Nord.

Chi sa parli…

Aria improvvisamente pesante anche in Italia. Dopo essere uscita dalla gestione unitaria, la sinistra della Dc esce anche dal governo. Sulla “legge Mammì”, che doveva regolamentare le televisioni, si consuma un duro scontro all’interno dell’esecutivo con le conseguenti dimissioni di cinque ministri della corrente di sinistra della DC e la loro successiva sostituzione avviene nel luglio del 1990. A quella legge avevamo lavorato noi in Commissione cultura ed è inutile negare che vi furono incontri e colloqui più o meno riservati tra i socialisti e Mediaset e in particolare con Gianni Letta. D’altronde sapevamo bene del rapporto tra Craxi e Berlusconi.
Ad agosto aria pesante sullo scenario internazionale. L’Iraq invade il Kuwait e l’Onu decide l’embargo, mentre in Sudafrica finisce l’odioso apartheid. E aria pesante anche a Reggio Emilia. Il 26 agosto, mi presento puntuale, come l’anno precedente, al cimitero di Casalgrande per commemorare il sindaco socialista Umberto Farri, ucciso da mani ignote in casa sua nell’agosto del 1946. Per la verità le celebrazioni di Farri erano state un appuntamento promosso più che dal Psi dai socialdemocratici, prima con i discorsi di Simonini e poi di Amadei, perché Farri aveva aderito, nel lontano 1946, alla mozione di Critica sociale al congresso del Psiup che s’era svolto a Firenze. E aveva dunque firmato la mozione politica di Saragat e di Simonini. Anche se la scissione del Psli, al momento del delitto, non era ancora stata consumata, è ipotizzabile che Farri avrebbe seguito Saragat e non Nenni. Ma a parte questo rilievo, il Psli, poi divenuto Psdi, restò più sensibile a quell’efferato delitto di quanto non fosse stato un Psi troppo spesso asservito al culto dell’unità della sinistra e per una lunga fase subalterno al Pci. Cominciai io a celebrare Farri a partire dalla seconda metà degli anni ottanta. Promuovemmo in alcune occasioni la commemorazione come Psi e Psdi, insieme. Poi, dopo l’adesione di Amadei al Psi nel 1989, iniziammo a organizzarla semplicemente come socialisti, invitando però alla nostra cerimonia anche i socialdemocratici. La mia commemorazione si articolò in tre punti che riassumo: “1) Il delitto Farri si inquadra in una serie di omicidi politici che insanguinarono la provincia di Reggio dopo la Liberazione. Essi avevano una matrice stalinista 2) Esiste un filo rosso che legava idealmente la cultura che ispirava questi delitti con quella che diede origine alle brigate rosse, il cui nucleo storico ebbe origine proprio nella provincia di Reggio. 3) Si faccia luce si queste pagine oscure e in particolare si impegni il Comitato per l’ordine democratico col suo presidente in testa (l’on. Otello Montanari) a fornire un’aggiornata versione storica e politica di questo e di altri fatti di sangue, che hanno in comune il rapporto con la Cecoslovacchia, dove espatriarono, dopo il colpo di stato del 1948, molti ex partigiani, sospettati o condannati per responsabilità in quelle vicende sanguinose” (1). Già l’anno prima avevo definito gli assassini di Farri come “brigate rosse ante litteram” (2). E avevo anche dedicato, nella mia tesi di laurea, poi pubblicata nel 1981 (3), un capitolo sulle violenze del dopoguerra in cui figurava anche il delitto Farri, dopo averne parlato un’intera sera con il prefetto di Reggio della Liberazione Vittorio Pellizzi.
Mi avevano annunciato la volontà di Otello Montanari di promuovere un convegno per presentare quel libro di Liano Fanti sui Cervi, “Una storia di campagna”, ove si descriveva il clima di isolamento in cui i simboli della resistenza reggiana erano stati lasciati dal Pci. Immaginavo che Otello Montanari, nelle nuove vesti del revisionista, avrebbe parlato. Non potevo immaginare che sarebbe esploso il caso del triangolo della morte, del quale tutta la stampa nazionale, le televisioni, i partiti politici avrebbero trattato per mesi. Anzi per due anni.
L’appello venne subito raccolto. E Otello Montanari parlò. Anzi scrisse un articolo pubblicato solo da “il Resto del Carlino” (4), neppure tanto originale. Larga parte del contenuto era stata attinta dal libro di monsignor Wilson Pignagnoli, “Reggio bandiera rossa”, dato alle stampe nel lontano 1961, e le sue considerazioni erano esclusivamente rivolte al delitto dell’ex direttore delle Reggiane Arnaldo Vischi, che era stato assassinato il 31 agosto del 1945. Su quel delitto Montanari ammette le responsabilità di una parte del gruppo dirigente del Pci reggiano. Anche questa, peraltro, non era una novità, visto che sia il segretario del Pci dell’epoca Arrigo Nizzoli, sia l’allora presidente dell’Anpi Didimo Ferrari (Eros) erano stati condannati dai tribunali e quest’ultimo era anche fuggito in Cecoslovacchia, sia pur solo per reati connessi all’omicidio. La notizia clamorosa fu che un dirigente comunista, e per di più autorevole e rappresentativo del passato del partito, qual’era Otello Montanari, ammettesse per la prima volte tali responsabilità uscendo dal guscio della retorica della resistenza tradita e dei “delitti fascisti”. E per di più che questo avvenisse mentre era in corso la svolta e si lanciava una sorta di glasnost all’italiana del fu Pci e della sua storia non sempre esaltante.
Fece colpo quell’appello finale di Montanari “Chi sa parli” che era un invito a uscire dalle reticenze del passato e di aprire tutti i cassetti ammuffiti e le storie sepolte. I giornali nazionali riprendono immediatamente la questione. Di essa si occupano le televisioni. E perfino più avanti, anche i giornali russi, scambiando Montanari per una sorta di novello Gorbaciov. Il protagonista del “Chi sa parli” acquisisce una notorietà inimmaginabile e la sua foto finisce addirittura nei quiz della “Settimana enigmistica” come un attore cinematografico, un calciatore, un divo della tivù. In un primo momento il gruppo dirigente del Pci si schiera a favore dell’iniziativa di Montanari.
Sulle “rivelazioni” di Montanari intervengono tutti. Il confronto diventa nazionale. E divide il Pci. Si sfogliano pagine di storia sconosciute ai più. I delitti di Vischi e poi di tre ex partigiani che indagavano sul delitto, sotto la probabile regia del segretario della Federazione del Pci, il delitto del sindaco socialista di Casalgrande Umberto Farri, sul quale ancor oggi non è stata fatta luce, quello del capitano Mirotti e di don Pessina, sui quali erano stati condannati innocenti come Egidio Baraldi e Germano Nicolini e quelli di centinaia di altri, assassinati dopo la Liberazione (dati forniti dal prefetto dell’epoca parlano di mille), tutto questo viene improvvisamente proiettato ai giorni nostri. Si tratta di una catena di sangue che qualcuno allunga fino al 1961 quando il capo dei Gap Robinson (Alfredo Casoli) uccide in pieno centro per vendetta il suo vice Muso (Rino Soragni)
Dopo l’articolo di Otello Montanari la Direzione del Pci invia a Reggio Piero Fassino per guidare il confronto, per non farlo deragliare, per non farselo sfuggire dalle mani, perché si presumeva che quel confronto avesse ripercussioni anche sulla svolta del Pci. E Fassino, in una prima fase, appoggia l’iniziativa, auspicando tra l’altro che si arrivi alla verità e alla giustizia anche per Germano Nicolini e che sia necessario fare opera di verità e di giustizia su tutti i delitti senza intaccare la Resistenza. Anche Antonello Trombadori e Nilde Iotti (5) appoggiano la posizione di Montanari, mentre Ugo Pecchioli, dal canto suo, afferma che “Montanari ha fatto benissimo” (6). Approva naturalmente l’ex comunista Renato Mieli, già direttore dell’Unità, che rileva che “i dirigenti comunisti di Reggio Emilia si sono decisi finalmente a liberarsi dagli scheletri che per quasi cinquant’anni avevano conservato nell’armadio della loro coscienza” e ricorda di avere avuto l’ordine, quando era all’Unità, di non parlare di Reggio Emilia. (7). Approva, anche con entusiasmo, Miriam Mafai che su “La Repubblica” chiede “la verità sul quel triangolo” (8). Poi, quando il dibattito si fa più serrato, c’è una sorta di controsvolta. Prima si decide di proporre una sorta di riabilitazione postuma di Togliatti, poi, piano piano, si arriva a rigettare in toto la polemica aperta, peraltro, da uno di loro. Il rinnovatore Occhetto inizia la difesa a spada tratta del comunista Togliatti, anche se continua a professare la necessità del cambio del nome del partito. Piero Fassino, che si era spinto davvero avanti nel denunciare i crimini di Reggio Emilia, rileva: “Non si può proprio credere che Togliatti avesse in animo di tollerare episodi come quelli di cui stiamo parlando” (9). Sull’altro lato, l’ex braccio destro di Secchia Giulio Seniga chiede addirittura una Norimberga per Togliatti e Massimo Caprara sostiene, a proposito dei responsabili delle violenze, che “Togliatti sapeva e li coprì” (10). Per parte mia, in un altro articolo sull’Avanti, ricordo che chi tollerò o promosse addirittura questi episodi di violenza venne solo trasferito altrove e non certo allontanato dal partito, e dunque il gruppo dirigente nazionale e Togliatti in primis cercò sempre di coprire. E’ il caso di Arrigo Nizzoli che dopo la condanna fu segretario del Pci a Ferrara.
Poi c’è la svolta, anzi la controsvolta.

Dalla svolta alla controsvolta

Il 7 settembre a sollevarsi è il vecchio Pajetta che a proposito delle polemiche che impazzano sui giornali attorno ai delitti del dopoguerra a esclama: “Quel Montanari è un pazzo” (11). E aggiunge: “Quel Montanari, dopo quel che ha detto, credo che prima di girare per Reggio Emilia, ci penserà un po’. Io l’ho trattato con delicatezza, ma lui è un pazzo” (12). Il problema mi parve subito il seguente. Il Pci, pur con tutte le semplificazioni, gli eccessi e le strumentalizzazioni che il confronto aveva generato, compresa la presa di posizione dei fascisti che con i due Pisanò in testa annunciavano una manifestazione a Reggio Emilia, intendeva chiudersi a riccio per difendere ad oltranza il suo passato, e in particolare la figura di Togliatti. Ma allora perché aveva deciso di recidere il suo cordone ombelicale? Cioè di rifiutare l’identità comunista? Si poteva legare l’attualità del nuovo partito che voleva iscriversi all’Internazionale socialista col passato comunista togliattiano del Pci? E soprattutto con quel che avvenne in quegli anni quando il Pci era non solo togliattiano, ma anche stalinista? Che cosa doveva mai difendere il Pci, allora? Era o non era una svolta quella di Occhetto? Con la controsvolta sui delitti del dopoguerra, benedetta dal centro e che si consumerà con la punizione del revisionista Montanari, col fuoco purificatore del traditore del partito e la sua defenestrazione dalla presidenza dell’Istituto Cervi e dagli organi dell’Anpi, il Pci mostrava tutta l’ambiguità del suo percorso.

Parte la controffensiva comunista, dunque. In cinque firmano un appello contro lo scempio della Resistenza e difendono Togliatti e il Pci. I cinque sono Arrigo Boldrini, Luciano Lama, Giancarlo Pajetta, Ugo Pecchioli e Aldo Tortorellla. Dunque alcuni esponenti del sì alla svolta e altri del no. Anche Giorgio Bocca si schiera contro la revisione e l’iniziativa di Montanari e così pure, allora, Giampaolo Pansa, che poi saprà rivedere la sua posizione, provocando contro se stesso le stesse contumelie che allora erano riservate a Montanari. All’interno del Pci ci fu chi, come Lucio Magri, affermò in un dibattito con Piero Fassino, alla festa nazionale dell’Unità che si stava svolgendo a Modena, che la polemica sui fatti di Reggio Emilia era “uno dei varchi su cui passano le spinte per la scissione” (13). Noi che, in qualche misura, avevamo iniziato a scrivere questa pagina, non potevamo rimanere semplici spettatori. E intervenimmo. Io scrissi altri articoli sull’Avanti col consenso, e anzi le sollecitazioni continue, di Ugo Intini, mentre Craxi si mostrò prudente e consapevole che su quelle vicende non si poteva aprire una campagna politica nazionale. Per questo Intini mi confidò che dovevo essere io a condurre le danze da Reggio. Il Pci ritorna ad esaltare la sua storia e Luciano Lama, nel discorso di chiusura del festival dell’Unità di Reggio, parla di “campagna infame contro il Pci e la Resistenza” (14). Per Marino Montanari, presidente dell’Anpi di Cavriago, il paese che ancor oggi custodisce il busto di Lenin in piazza, Otello Montanari deve essere cacciato dalla presidenza dell’Istituto Cervi. “Otello”, dice “ha perso l’equilibrio” (15). Lo aveva detto anche Pajetta che era diventato matto. Pochi giorni dopo, però, a difesa di Otello Montanari, scenderà in campo niente meno che il giornale ufficiale dei giovani comunisti dell’Unione sovietica, la Komsomolskaya Pravda, che afferma testualmente: “Quando nel 1945-47 i comunisti furono accusati di alcuni assassini politici essi parlarono di provocazione, ma le attuali rivelazioni di alcuni veterani del partito hanno fatto nuovamente parlare della responsabilità di alcuni sostenitori del Pci per i crimini di allora” (16). Il giornale ricorda a tale proposito la strage di Schio del 1945 e i fatti di Reggio Emilia dove “avvennero delle brutalità e gli ex dirigenti del Pci della città emiliana si rifugiarono in Cecoslovacchia, come fecero molte altre persone per evitare una condanna per i loro crimini politici. Il Pci evidentemente aiutava queste persone e Palmiro Togliatti, che nel 1945-47 ricopriva la carica di ministro della Giustizia, non poteva non sapere questi fatti vergognosi” (17). Quel che sembrava logico in Urss non lo era in Italia, dove il Pci pareva avvitato su se stesso. Possibile che si mostrassero più revisionisti i sovietici degli italiani? Sorgeva addirittura una differenza all’incontrario? Perché si voleva stabilire, gli stessi dirigenti comunisti volevano stabilire, un rapporto? Perché il Pci, diventato “la cosa” e che si apprestava a diventare Pds, non sosteneva apertamente Montanari e affermava con chiarezza: “Noi non sentiamo nostra quella storia, fatta di delitti e di reticenze, di ragion di partito e non di ragion di verità. Non la sentiamo a tal punto nostra che adesso fondiamo un nuovo partito?”. Cosa glielo impediva? Questo era il nodo su cui si stavano avviluppando la credibilità stessa della svolta e le prospettive unitarie della sinistra. La cosa mi colpì molto e anch’io, che avevo salutato con grande interesse e favore la Bolognina e criticato sia pur indirettamente Craxi per i suoi silenzi, mi trovai in una posizione fortemente avversa. Cercammo anche di aprire un confronto più approfondito e serio e promuovemmo un convegno di studio alla sala del Capitano del popolo per domenica 16 settembre. Quel convegno si aprì con la mia relazione, che tendeva a distinguere tra i fatti della guerra di liberazione, dove pure non mancarono episodi di violenza sommaria e di discriminazione politica, e quelli del dopoguerra, e in questi tra la violenza frutto delle vendette e dell’odio nei confronti dei fascisti, che pure doveva essere condannata, e quella che sorse e venne praticata contro gli antifascisti. Intervennero Rino Formica, Aldo Aniasi, Carlo Ripa di Meana, Fabio Fabbri, Paolo Cristoni, Giulio Ferrarini, Enrico Boselli, Sergio Nigro. Ripa di Meana fece alcune rivelazioni sulla doppia linea del Pci ai tempi in cui egli stesso militava nelle sue fila e quando, per sei anni (dal 1951 al 1957), lavorava nella sala macchine del comunismo internazionale, e cioè a Praga. Il deputato europeo socialista, che allora militava sulle posizioni di Craxi, ricorda che a Praga esisteva “una commissione del Partito comunista italiano che aveva sede a Vinhorad dietro il teatro nazionale” (18) e che era costituita da “un nucleo riservato, coperto, influente, accreditato presso il Comitato centrale del Partito comunista cecoslovacco e presso i servizi segreti cecoslovacchi” (19). Tale organismo era politicamente coordinato da Moranino, il parlamentare comunista e sottosegretario, poi fuggito in Cecoslovacchia per una condanna a seguito di un crimine compiuto da partigiano, e che teneva i contatti con Bucarest, Praga e Mosca. Questa commissione era direttamente a contatto col Pci italiano e tra gli esponenti di tale commissione c’era anche il reggiano Didimo Ferrari (Eros). Esisteva poi, seguendo il racconto di Ripa di Meana, un secondo sistema coperto e riservato del Pci in Cecoslovacchia ed era quello della radio “Oggi in Italia”, che trasmetteva clandestinamente da Praga notiziari, commenti, inchieste, discorsi politici e la cui redazione si trovava proprio alle Botteghe oscure. Togliatti certo conosceva l’esistenza di queste strutture clandestine e parallele. La tesi di Ripa di Meana è la seguente: il Pci di Togliatti e Secchia ha organizzato, mantenuto e preparato in Cecoslovacchia un’ipotesi parallela a quella legalistico-parlamentare a cui era forzato dagli equilibri interni e internazionali e aggiunge che se questa verità avesse continuato ad essere negata dal Pci non si sarebbe potuto marciare insieme ai comunisti in Italia perchè sarebbe venuta meno una parte di verità del loro passato.
La tesi di Ripa di Meana fu naturalmente ripresa da tutti i giornali e le televisioni italiane. Giovanni Berlinguer precisò di non aver mai avuto conoscenza di una simile struttura, così Antonello Trombadori e Renato Zangheri. Per Ugo Pecchioli “è cialtronesca l’immagine di un Togliatti che mimetizzava le sue vere intenzioni” (20). Così un’iniziativa che pareva preludere a una vera e propria glasnost italiana del Pci, si concludeva, almeno per ora, con la rivalutazione piena di Togliatti, con il “giù le mani” dalla Resistenza non distinguendola dalle sue degenerazioni, e soprattutto con la condanna del revisionista Montanari che, come un traditore del partito e della sua storia, si apprestava ad essere sostituito dai suoi incarichi nello stile della vecchia liturgia comunista.

L’ex Pci fatica a nascere e Craxi cambia il simbolo

Enrico Boselli si mette in testa, dopo la sua elezione a presidente della regione nell’estate del 1990, che devo essere io a succedergli alla segreteria regionale del Psi. In fondo eravamo i soli due socialisti emiliani in Direzione e il fatto ch’io fossi anche parlamentare non doveva essere considerato ostativo. Anche Craxi gli era parso favorevole. Poi, dopo l’organizzazione di una manifestazione con Claudio Martelli a Pavia, dov’ero ancora commissario, con la presenza di Bruno Pellegrino, che Claudio intendeva candidare nel collegio Milano-Pavia, i deputati di Milano si erano ribellati e avevano contattato Craxi mettendolo sul chi va là e formulandogli l’illazione che proprio io stessi organizzando un gruppo anticraxiano in mezza Italia. E che l’asse tra una parte dei riformisti e la sinistra, benedetta dal commissario regionale del Psi lombardo Sergio Moroni e dal vice presidente della Regione Ugo Finetti, che si era formato a Milano sulla base di una certo qual malessere per la gestione di Craxi nella metropoli lombarda, stesse ormai dilagando anche altrove. Non c’era niente di vero, almeno per quel che mi riguardava. Il gruppo di Martelli verrà formato solo dopo le elezioni del 1992 e allora non era neanche in gestazione. Però il sol fatto che potesse essere plausibile un’indiscrezione senza fondamento consigliò Craxi a suggerire a Boselli che era meglio, anche per l’Emilia-Romagna, puntare su un non parlamentare. Più tardi Craxi mi bloccherà il congresso provinciale di Pavia che avevo già iniziato perché, a suo dire, c’era troppa confusione in Lombardia, ringraziandomi nel contempo per il lavoro svolto e dichiarandomi di fatto decaduto. Craxi mostrava sempre un suo modo avvincente nel comunicarti le decisioni, anche quando erano penalizzanti. E così nell’incontro, che si svolse nel suo ufficio di Roma nel gennaio del 1991, non solo mi riempì di elogi, ma mi garantì pieno appoggio per le elezioni politiche successive. Per la verità il fatto d’essermi tolto, dopo il dente di Ragusa, anche quello di Pavia, non mi rese per niente infelice.
Ma andiamo con ordine. Mentre a Reggio non si placa il confronto su avvenimenti di quarant’anni prima, in Sicilia la mafia spara e uccide il giudice Rosario Livatino e muore, poco prima di Alberto Moravia, anche Giancarlo Pajetta, che se ne va improvvisamente tra le angosce della svolta di Occhetto e quella di Montanari. Il primo gli aveva tolto il comunismo dal nome del suo partito, il secondo aveva colpevolizzato i partigiani. In ottobre Occhetto presenta il nome e il simbolo del nuovo partito. Si chiamerà Pds (Partito democratico della sinistra). Il simbolo contiene una grande quercia con alle sue radici il simbolo e il nome del Pci. Come dire: andiamo verso il nuovo, ma non rinneghiamo la nostra tradizione. Ci può stare. Anche il Psi, quando cambiò il simbolo, in una prima fase pose alla base del garofano il vecchio emblema.
E a proposito del cambio del simbolo Craxi anticipa tutti e annuncia che anche il Psi cambierà il suo. Più avanti adotterà la scritta “Unità socialista” nella corona. Cosa che avviene su decisione della Direzione di lì a poche settimane. Come a dire agli ex comunisti: noi sì che siamo non solo decisionisti, ma anche rapidi… Il Psi nazionale nomina Felisetti presidente del comitato per seguire l’evoluzione del “caso Moro”, mentre la crisi del Comune di Luzzara, un paese della bassa reggiana dove socialisti e comunisti rivendicano entrambi la poltrona di sindaco, sfocia nelle elezioni anticipate vinte dalla Lega nord che vola all’8%. Il Pci riconquista la maggioranza assoluta, mentre i socialisti perdono il 5% (dal 25% al 20). Il Psi reggiano si stringe a Otello Montanari dopo le richieste di dimissioni dall’Istituto Cervi formulate dall’Anpi. A proposito di Montanari continuano le polemiche sul dopoguerra e sul tavolo vengono gettati nuovi argomenti: quello d’un Cavòn di Campagnola dove sono stati seppelliti diversi cadaveri di cittadini innocenti e quello di Gladio, un’organizzazione anticomunista che aveva il compito di promuovere la difesa del nostro territorio in caso d’invasione dall’Est, mentre nuovi misteri s’addensano su Reggio relativi alla morte violenta di don Amos Simonazzi di Montericco di Albinea e al suicidio del notaio Pierluigi Corbelli. Vittime, queste due, di quei giorni e non del dopoguerra.

Quel grande convegno sull’ambiente a Parma

Muore il grande attore Ugo Tognazzi e Gorbaciov è insignito del Premio Nobel per la pace. A fine ottobre il Psi promuove a Parma un grande convegno sull’ambiente e svolgo una relazione introduttiva parlando anche della Padania e della Lega. Interviene anche Claudio Martelli e conclude Bettino Craxi, che preferisce parlare di politica anche perché dell’ambiente aveva perso gli appunti scritti. Alla Fiera ci sono migliaia di socialisti convenuti da ogni parte d’Italia e alla fine Tanzi e Barilla chiedono di incontrare Craxi per un veloce scambio d’idee sulla situazione economica. Si parla anche di uno stadio in comune tra Reggio e Parma, ma ancora una volta non se ne farà nulla. A novembre, a Reggio, tento di approfondire meglio il fenomeno leghista che mi preoccupa alquanto e convoco un incontro tra una quarantina di dirigenti e uomini di cultura e delle associazioni economiche provinciali, tentando un’analisi sulla sua natura e i suoi possibili sviluppi futuri. Mi chiedo, con molta preoccupazione, in una giornata intera di studio, di approfondimento e di dibattito, quanto la Lega sarà in condizione di sottrarci e quanto noi sapremo sottrarre al Pci. E il conto non mi torna (21).
Sempre a novembre è fissato il congresso provinciale del Psi che si svolge alla sala Verdi. Per Nando Odescalchi è un commiato. Eletto consigliere regionale e assessore nella giunta Boselli, Odescalchi svolge una relazione per sottolineare i risultati ottenuti dal Psi reggiano durante la sua triennale gestione. I dati delle politiche del 1987, delle europee del 1989 e delle regionali e amministrative del 1990 testimoniavano la buona salute d’un partito vivace, fresco, pieno di iniziative e corroborato da strumenti culturali ed editoriali d’un certo valore. Il lancio de “La Giustizia”, ove scorazzava ancora la penna ironica del buon Matteo (alias Sergio Masini), il potenziamento de “L’Almanacco”, che aggregava i migliori storici reggiani con approfondimenti tematici di dimensione ormai non più solo locale, l’Istituto storico Pietro Marani, che con la presidenza di Giorgio Boccolari era ormai parte integrante di una rete di istituti storici nazionali, e in più il potenziamento del movimento giovanile con centinaia di militanti sotto i trent’anni, non erano solo una dimostrazione di forza, ma anche di qualità della nostra politica. Odescalchi si diffuse anche sul cambiamento degli iscritti rispetto al 1987 (il 20% era di nuovo conio) e anche sulla natura diversa del nostro elettorato rispetto a quello tradizionale. Volle però sottolineare l’esigenza “di aprire di più il Psi e di avere sempre più capacità progettuale di riforma della realtà” (22).
Nelle mie conclusioni posi sei interrogativi al Pci e al suo percorso di rifondazione: 1) L’unità socialista è una proposta del Psi, ma il Pci-Pds teme più il sostantivo “unità” o l’aggettivo “socialista”? 2) Perché non si prende atto che a sinistra anche in Italia, come in tutt’Europa, o si è comunisti o si è socialisti? 3) Che rapporto il nuovo partito vuole stabilire con la Dc e perchè intende il referendum di Segni come un’occasione per un nuovo bipolarismo? 4) Perché il Pci-Pds, se crede nell’unità della sinistra, ha rifiutato un accordo col Psi in tutta la provincia e adesso sceglie in alcuni comuni l’accordo con la Dc? 5) Perché si schiera con chi intende fare i processi ai politici, essendo un partito di politici? 6) Perché dà l’impressione, anche sull’ambientalismo, di seguire ogni moda? (23). Germano Artioli, da vice si era guadagnato i galloni del titolare. E l’anno, questo anno così infuocato, si chiude con la notizia più bella. Lech Walesa è il nuovo presidente della Polonia. Colui che diede inizio alla rivoluzione, col papa polacco che ne era stato l’ispiratore, la conclude con la sua vittoria elettorale.

La guerra del Kuwait

A gennaio del 1991 venti di guerra. Saddam non si ritira dal Kuwait, nonostante incontri diplomatici, nei quali emergeva il suo ministro Tarek Aziz, che si mostrava nelle vesti di un andreottiano dei giorni nostri, e nonostante l’embargo e la minaccia di usare la forza e dopo che in extremis il segretario dell’Onu Perez de Quellar aveva giocato l’ultima carta, recandosi di persona a Bagdad. Iniziano i bombardamenti in diretta televisiva. Una guerra in tivù era una novità. Vedevi le luci e sentivi il sibilo delle bombe “intelligenti” nella notte stellata del medio Oriente e quasi ti rizzava i peli delle braccia quel rombo inquietante degli schianti sugli obiettivi militari. Sembrava un film “Tempesta nel deserto”, con tanto di attori, di regista e sceneggiatore. E invece era realtà. Poco prima la Camera aveva autorizzato la missione italiana, coi voti contrari del Pci-Pds e dei Verdi, tranne Rosa Filippini, che s’era dissociata e aveva iniziato la sua marcia di avvicinamento al Psi. Autorizzare un intervento militare italiano non era semplice, ma non si vedeva quale altra potesse essere la nostra posizione. L’Onu aveva deciso un’azione di forza contro un Paese che aveva ne invaso un altro, e per di più suscitando reazioni e condanne da parte dell’intero mondo arabo, che si trovò direttamente impegnato, con alcune nazioni, anche nell’azione militare. Si trattava di un intervento Onu, non Nato, come avverrà quando i Ds voteranno a favore dell’attacco alla Serbia, partecipando, con le decisioni del governo D’Alema, direttamente ai bombardamenti su Belgrado senza passare dal Parlamento. Mitterand era stato rigidissimo e aveva deciso di partecipare attivamente alle operazioni, mentre in Italia il Pc-Pds era ancora fermo ai comitati della pace e agli “Usa go home”? Sembrava di sì. Anche a Reggio si diede subito vita ai comitati per la pace, alle donne in nero e a tutto il vecchio armamentario veterocomunista che in questa nuova situazione significava di fatto un appoggio a Saddam. Né con Saddam, né cogli Usa: questa sembrava la posizione “neneista” degli ex comunisti. Difficile però da decifrare. Anche perchè (e su questo scrissi un articolo sulla “Gazzetta di Reggio” e sull’Avanti) nessuno si era accorto del massacro che Saddam, novello Hitler, aveva impartito al popolo curdo e che nella primavera del 1991 diverrà poi di pubblico dominio in dimensioni ancora più drammatiche. Quando il 18 gennaio del 1991 presi la parola in Consiglio comunale sul tema della guerra venni circondato con striscioni e accolto da canti e urla che mi impedivano di profferir parola, e fu con fatica che riuscii a sostenere le mie tesi senza essere interrotto, mentre il capogruppo del Psi Nicola Fangareggi fu indotto a intervenire per chiedere al sindaco di sospendere la seduta. A casa mia incendiarono il campanello e scrissero slogan contro di me sul muro davanti al mio cancello, mentre il neo rifondatore comunista Adriano Vignali mi attaccò personalmente sostenendo che avrei violato la Costituzione (24). In fondo solo Bonferroni ed io, tra i parlamentari reggiani, avevamo votato in accordo col governo e la maggioranza, mentre Renzo Lusetti si era astenuto e Pierluigi Castagnetti, Elena Montecchi e Ugo Benassi avevano votato contro.
Craxi si mantenne su una posizione di prudente adesione. Non deragliò mai in atteggiamenti filo bellicisti alla Giuliano Ferrara (anzi, quando in febbraio venne a Reggio per l’assemblea dei socialisti della Lega delle cooperative e lo andammo a prendere all’aeroporto di Parma, Craxi mi confidò d’essere piuttosto irritato con Ferrara, perché aveva assunto posizioni estremiste e aveva contestato la sua dichiarazione congiunta con Occhetto di condanna ai bombardamenti sulle città). Restava il fatto che il Psi non potesse assumere una posizione diversa. Di quelle settimane ricordo bene il clima che si respirava con l’esercito che pattugliava ogni postazione pubblica a rischio, le poste, la stazione, gli aeroporti, e noi che ci recavamo a Roma in auto, evitando servizi pubblici ritenuti rischiosi. Sembrava d’esser ripiombati d’un tratto in un’altra epoca, quella dell’attacco al cuore dello Stato. Ma in questo caso si temevano attentati e azioni di guerra che provenivano dall’esterno. Misteriosi e invisibili pericoli quotidiani erano diventati nostri abituali compagni di vita. E lo saranno per più d’un mese.
Così, quando nello stadio di Ascoli Piceno, dove mi ero spinto per seguire la mia Reggiana, si gridò “Pace”, quando il capitano Maurizio Cocciolone e il maggiore Gianmario Bellini vennero fatti prigionieri o quando le dirette televisive di tutta la guerra “minuto per minuto” ci invadevano la casa, con attacchi bellici e morti veri che restavano sul selciato, anzi nella sabbia del deserto, non vedemmo il momento che tutto questo potesse finire. Se alla guerra non c’era alternativa, alla pace si doveva arrivare in tempi ristretti. L’aveva intuito Craxi alla fine delle votazioni sull’invio della missione italiana: “Se si fa in fretta e ci sono poche perdite umane, si può resistere, se no sarà dura” (25). Il protrarsi della guerra e i bombardamenti sulle città (quei cinquecento morti dopo un bombardamento “intelligente” che colpì un rifugio era avvenimento davvero drammatico e ingiustificabile) avevano indotto Craxi a correggere parzialmente il tiro e ad emettere quel comunicato congiunto con Occhetto contestato da Giuliano Ferrara.
La guerra era ancora in corso durante il congresso per la nascita del Pds. E anche quando ci recammo a Rimini per il congresso nazionale, nell’ampio salone riecheggiavano le note dei vecchi inni pacifisti. Poi la coreografia cambiò ed ebbe la prevalenza l’iconografia del nuovo partito, la sua quercia e il suo nome. A pranzo con Craxi, Amato, Fabbri, Boselli ed altri discutemmo di quella scelta. Craxi apparve ancora in posizione d’attesa. Ancora. Sospendeva il giudizio. Aspettava segnali di disponibilità al dialogo che non sapeva raccogliere, mentre Cossutta se n’andò al canto dell’Internazionale e con Garavini, la Salvato ed altri fondò il nuovo partito di Rifondazione comunista. Poi il giallo finale sull’elezione di Occhetto che non passò e si rifugiò a casa sua, affranto, deluso, depresso. Il suo recupero, come quello di Achille che s’era rifugiato nella sua tenda dopo la morte di Patroclo, fu rapido. E venne incoronato, sia pure in ritardo. E con notevole mal di pancia.
Giuliano Vassalli è giudice costituzionale e Claudio Martelli assume anche il dicastero della Giustizia, mentre Bettino Craxi parla al teatro Municipale di Reggio Emilia ai cooperatori socialisti di tutta Italia, in un clima trionfale. Il teatro presenta un magnifico colpo d’occhio e prima del suo discorso Otello Montanari, assieme a Fernando Guatteri, lo accompagnano a visitare la mostra dei cimeli garibaldini di proprietà di Guatteri, allestita nella sala degli Specchi. Il garibaldino Craxi dubita dell’autenticità di una veste di Anita. Poi, nella magnifica sala del teatro, parla prevalentemente di piccola impresa e si lascia andare a un solo accenno di rivincita storica citando un passo del discorso di Turati a Livorno che scatena l’uditorio. Pranziamo accerchiati da giornalisti e dalle telecamere della Rai e di Mediaset all’azienda ex Asso con Gianni Galeotti e altri cooperatori.

La crisi del governo Andreotti senza elezioni, mentre Cossiga esterna
Il 25 febbraio finisce la guerra, con il ritiro delle truppe dell’Iraq dal Kuwait, Bush non va oltre il mandato dell’Onu e Saddam resta al suo posto. Cocciante vince il festival di Sanremo con “Se stiamo insieme”, ma la verità è che Craxi pare non voler più stare insieme ad Andreotti e dichiara aperta la crisi di governo. Il vecchio Giulio aveva detto: “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia” (26). Craxi la pensa diversamente. Punta ad elezioni anticipate? Ci sono tutti gli elementi per desumerlo. La guerra è finita, il Psi viene dato dai sondaggi in netto aumento, il Pds è stato appena fondato, la Lega non si è ancora pienamente consolidata. E invece non sarà così. Il perché resta tuttora un mistero, spiegato con motivazioni diverse. Quella per così dire ufficiale è che una parte del Psi non volesse le elezioni. La parte più filo governativa, De Michelis, Lagorio, Capria, ma anche Amato, che già avevano dovuto digerire la crisi del governo De Mita nel 1989, pare tirasse indietro assieme ad altri ministri, sottosegretari e parlamentari, che di elezioni anticipate fanno sempre volentieri a meno. Spiegazione da rinviare al mittente, perché Craxi aveva allora la forza per spingere sull’acceleratore, anche se una parte, peraltro assolutamente minoritaria del partito, avesse manifestato perplessità. Poi c’è una motivazione da dietrologi. E cioè che Andreotti a Milano, con la sua amica Fumagalli Carulli, stesse spingendo sulla cosiddetta Duomo Connection dove parevano coinvolti anche alcuni dirigenti socialisti meneghini, a cominciare da Pillitteri. E che Andreotti, per pilotarla, avrebbe di fatto ricattato Craxi e chiesto d’essere confermato alla presidenza del Consiglio. Difficile stabilire un automatismo simile. Può essere che Craxi abbia temuto la Duomo Connection dove in prima fila c’era quell’Anita Garibaldi che egli stesso aveva voluto negli organi di partito. Ma che Andreotti abbia barattato la sua permanenza a Palazzo Chigi con la fine della Duomo Connection (avrebbe dovuto controllare tutti i magistrati di Milano a quel punto) pare piuttosto improbabile. Vi è una terza motivazione di ordine squisitamente politico, che a me pare invece la più probabile. E cioè che Craxi non intendesse approfittare della situazione dell’ex Pci-Pds, tagliandogli le gambe con l’anticipo delle elezioni. Dare un colpo di coltello al nuovo Pds poteva comportare anche un rafforzamento del Psi, ma nel contempo un indebolimento della prospettiva dell’unità socialista. A fronte di un Craxi che avesse scelto di approfittare dalla crisi e del processo appena completato di nascita del Pds per dargli una botta, il gruppo dirigente del nuovo partito avrebbe reagito assumendo una posizione politica ancora più antisocialista e ancora più decisamente favorevole ad un rapporto diretto con la Dc, come del resto allora gli faceva balenare Occhetto parlando di D’Alema, negli incontri riservati di quei giorni. Il Pds aveva bisogno di tempo e l’anticipazione di un anno della scadenza elettorale sembrava davvero un pericolo troppo grande. Craxi, in questo la sua sensibilità era quella di Nenni, temeva più d’ogni cosa l’isolamento del Psi. L’idea di un matrimonio tra Pds e Dc lo terrorizzava. Occhetto lo sapeva e anche per questo ne parlava volentieri con lui. Ad organizzare gli incontri tra Craxi e Occhetto era generalmente Piero Fassino, il più filosocialista dei giovani dirigenti del nuovo Pds. Ricordo di averlo incontrato in quei giorni in aereo e d’essermi fatto raccontare le sue pressioni sul segretario del suo partito perché stilasse comunicati con Craxi. Ma c’era una quarta motivazione che può conciliarsi con la terza. E cioè l’opinione del presidente della Repubblica Francesco Cossiga. La posizione di Cossiga, in quei mesi, si era fatta ruvida nei confronti di Andreotti e il presidente della Repubblica commenterà più tardi che anche il Psi “aveva avuto paura delle elezioni anticipate” (27) e che dopo “sarebbe stato anche peggio” (28). Craxi aveva assunto, rispetto alle esternazioni di Cossiga che ormai non si contavano più, assieme alle sue rivelazioni su Gladio, sugli anni di piombo, le richieste di grazia per Curcio, le offese nei confronti di questo o quell’esponente politico (Occhetto verrà definito “zombi coi baffi”), una posizione di continua e acritica copertura. D’altronde Cossiga era colui che gli avrebbe dovuto affidare l’incarico di formare il governo e il Pds, a fronte di un rapporto non deteriorato, avrebbe anche potuto, in una prima fase, secondo i suoi calcoli, dare una mano. Possibile appoggiare Cossiga anche contro Andreotti e Forlani, contro quel Caf che non esisteva se non nelle sigle dei giornali, ma che suffragava tuttavia l’esistenza di un rapporto positivo tra i tre leader politici? Perché dunque dare uno scossone? Cui prodest? Così il governo che avrebbe dovuto tirare le cuoia poté continuare a tirare a campare. E ad aprile la crisi di governo si risolse col governo di prima. Nacque il “governo d’Egitto”, visto che poco prima Craxi aveva commentato: “Ma che rimpasto d’Egitto?” (29).
Intanto, il traghetto Moby Prince s’era scontrato tra Livorno e Ostia con una petroliera e il bilancio era stato drammatico con ben 140 morti. Tra le vittime anche sette reggiani. Muoiono Giovanni Malagodi e Randolfo Pacciardi, Sergio D’Antoni succede a Franco Marini alla guida della Cisl e a Reggio muore a 65 anni l’ex assessore e responsabile della nave della solidarietà col Mozambico Giuseppe Soncini, messo sotto fuoco lento dalla magistratura, dopo un intervento al cuore. A fine aprile Luciano Pavarotti festeggia al nostro teatro il suo trentennale dell’esordio. Ci eravamo impegnati in tanti (in primis il nuovo presidente Ero Righi) perché, com’era avvenuto per il ventennale, non ci anticipasse Modena
Le continue esternazioni di Cossiga colpiscono, adesso, anche la Dc. E il Pds presenta in Parlamento un’interrogazione su Gladio, muore Nino Prandi a 95 anni, il socialista che era stato allievo di Prampolini, il fondatore della famosa Libreria di via Cavallotti (oggi via Crispi), l’ultimo dei vecchi riformisti del primo Novecento.

La sconfitta del mare al referendum e il congresso di Bari

A metà maggio il sindaco di Reggio Giulio Fantuzzi annuncia le sue dimissioni. Non riusciva a mantenere il doppio incarico (era stato eletto nel 1989 deputato europeo). Rappresenta un’anomalia. Dal 1945 al 1991 si erano susseguiti solo tre sindaci. Prima di lui: Campioli, Bonazzi e Benassi. Erano stati meno dei papi e dei segretari del Pcus. Fantuzzi, contrariamente ai suoi predecessori, aveva mantenuto la poltrona di sindaco solo quattro anni. Gli succederà Antonella Spaggiari, come lui di Massenzatico, giovane e grintosa capogruppo.
Non si dimette, ma non viene rieletto, invece, Otello Montanari al congresso dell’Anpi che gli nega i voti per rientrare nel comitato provinciale, mentre un socialista atipico, il segretario nazionale dell’Anpi Giulio Mazzon, sostiene le tesi più integraliste e a proposito dell’immediato dopoguerra, afferma: “Avremmo dovuto sparare qualche raffica in più” (30). Montanari, il mese dopo, sarà costretto a lasciare anche la presidenza dell’Istituto Cervi. Due epurazioni in stile veterocomunista dopo le ammissioni sul dopoguerra. Una seconda raffica. Quella in più. Naturalmente reagiamo compatti noi socialisti e dichiariamo piena solidarietà a Montanari, chiedendo al nuovo Pds di prendere posizione contro gli epuratori. Richiesta rinviata al mittente.
Intanto quel che non t’aspetti avviene. E al referendum sulla preferenza unica di giugno promosso da Segni e compagnia, nonostante l’invito di Craxi di andare al mare, prevalgono i sì. È il primo segnale di un distacco tra la base elettorale e i vertici dei partiti del quale il successo della Lega l’anno prima era stato l’anticipazione. Craxi aveva convocato il congresso a Bari a fine luglio perché pensava a una striscia di due successi consecutivi pochi giorni prima: il mancato raggiungimento del quorum al referendum e un’avanzata del Psi alle elezioni siciliane. E invece anche le elezioni siciliane non diedero l’esito sperato e il Psi ottenne un risultato modesto.
Così, quando prendemmo l’autostrada per Bari, dopo che Berlino era tornata la capitale della Germania unita, il clima che respiravamo non era certo quello d’un partito che aveva indovinato tutte le sue mosse. Che bisogno c’era di schierarsi così su un referendum che non avrebbe segnato nessuna svolta particolare, portando da quattro a una le preferenze per la Camera? È chiaro che con quella esplicita posizione di Craxi il referendum aveva acquisito un significato anti socialista e anticraxiano. Avevamo perso un referendum che non parlava di noi e che non chiedeva a nessuno di noi di schierarsi. Bell’impresa. Veramente un errore, anche perché non è mai da apprezzare (anche se sarà usato spesso anche in futuro) quell’invito di un’autorità politica a disertare le urne. Arrivammo a Bari nel solito scenario pansechiano, con le note musicali d’un’onda lunga un po’ in tono minore e con un caldo infernale in quel salone della fiera intasato di socialisti, in gran parte alloggiati su navi che sostavano sul porto. Per parte mia avevo scelto una posizione che non era quella craxiana ortodossa. Anzi avevo insistito sull’unità socialista come unica politica possibile e giustificabile. E mi schierai sulla posizione di Martelli che aveva dato appuntamento alla nascita di un nuovo partito a Genova, nel 1992, cent’anni dopo, composto da socialisti ed ex comunisti, ma anche da settori liberaldemocratici e cattolici. Era la sua vecchia idea del partito democratico, che però doveva aver un cuore e un’identità socialista. Nessun’analogia col partito democratico che poi prenderà piede in Italia. Craxi si mantenne più prudente, anzi quasi fermo e così pure De Michelis e Amato, mentre Formica, certamente schierato sulla prima posizione, volle restare un po’ nelle vesti del padrone di casa e omaggiare Craxi senza polemizzare con lui. Un congresso tutto sommato inutile, anche perché non si doveva eleggere alcun organismo. Nessuno di noi sapeva allora che sarebbe stato anche l’ultimo.

Note
1) M. Del Bue, Umberto Farri, testimone e martire riformista, testo della commemorazione tenuta a Casalgrande il 28 agosto del 1991, Reggio Emilia 1991.
2) M. Del Bue, Il partito socialista a Reggio Emilia, problemi e avvenimenti dalla ricostituzione alla scissione, pp.153-154, Venezia 1981
3) Ibidem.
4) Rigore sugli atti di Eros e Nizzoli, in il Resto del Carlino, 29 agosto 1990.
5) Vedi A Otello Montanari il grazie della Jotti, in La Repubblica, 1 settembre 1990.
6) Pecchioli ricorda quegli anni “Togliatti combattè i ribelli”, in La Repubblica, 1 settembre 1990.
7) R. Mieli, Quando al Pci mi dissero: non parliamo di Reggio Emilia, in Corriere della sera, 1 settembre 1990.
8) M. Mafai, La verità su quel triangolo, in La Repubblica, 31 agosto 1990.
9) E’ vero, il partito favorì i colpevoli, in Avanti, 4 settembre 1990.
10) Caprara: Togliatti sapeva e li coprì, in Corriere della sera, 6 settembre 1990.
11) M. Del Bue, Storia di delitti e passioni, Reggio Emilia 1995, anche Pajetta, Quel Montanari è un pazzo, in Corriere della sera, 7 settembre 1990.
12) Ibidem.
13) E subito la festa diventa un ring, in La Repubblica, 4 settembre 1990.
14) F. Alberti, La resistenza non si tocca, in il Resto zdel Carlino, 10 settembre 1990.
15) Montanari va cacciato, in Gazzetta di Reggio, 11 settembre 1990.
16) Togliatti coprì fatti vergognosi. La sovietica Kosmolskaya Pravda interviene sui delitti del dopoguerra, in La Repubblica, 20 settembre 1990.
17) Ibidem.
18) C. Ripa di Meana, Una reticenza inaccettabile, in La resistenza tradita, cit, p. 93.
19) Ibidem.
20) Il Pci non cospirava in Cecoslovacchia, in La Repubblica, 18 settembre 1990.
21) Il Psi trema: come prendere voti al Pci, in Gazzetta di Reggio, 11 novembre 1990 e L’Agape socialista, ibidem.
22) Vedi Il deputato on. Mauro Del Bue, in La Giustizia, dicembre 1990.
23) Ibidem.
24) E Vignali attacca Del Bue: “Ha violato la Costituzione”, in Gazzetta di Reggio, 1 febbraio 1991.
25) Ricordo dell’autore.
26) “Meglio tirare a campare che le cuoia” è la risposta a chi imputava ad Andreotti di tirare a campare col suo governo nel febbraio del 1991. Vedi Nota Ansa del 13 gennaio 2009, intitolato L’andreottismo spiegato con le sue battute, in Wikipedia, su Internet.
27) M. Pini, Craxi, cit, p. 426
28) Ibidem.
29) Ibidem.
30) Dovevamo sparare qualche raffica in più, in Gazzetta di Reggio, 19 maggio 1991, anche in M. Del Bue, Storia di delitti e passioni…, cit, p. 20.

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