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Cent’anni di Pietro Ingrao, il nostro Mao

29 Marzo 2015 1.140 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Compie un secolo pieno Pietro Ingrao, il dirigente politico che ha sognato un comunismo impossibile. Quello che ha affascinato i cultori di un idealismo di estrema sinistra. Un cenacolo di pensatori, abituati al ragionamento pacato quanto inflessibile, spesso condito con teorie complicate e condite a sorsi di champagne. Come si addice, d’altronde, ai grandi utopisti d’ogni tempo. Ingrao è stato il confine del Pci, la dimostrazione che si poteva restare nel gran partito a fare la rivoluzione. “Ingrao è il nostro Mao” era uno slogan cucinato ad arte e non solo giustificato dalla rima.

Eppure Ingrao non avrebbe ammazzato nessuno. A meno che la sua ideologia non l’avesse richiesto e allora lo avrebbe forse fatto fare ad altri. Era cosa grezza e speciosa. Lui era altrove. Cercava il suo comunismo come Diogene cercava l’uomo. In cent’anni non si è ancora accorto che non esisteva. Come il suo più diretto discendente, Lucio Magri, il più intelligente e colto e da vetrina, che si è lasciato morire anche per non avere potuto rintracciare il suo e che merita tutta la nostra stima e il nostro rispetto. Ingrao è stata l’altra faccia di Amendola, collocato sull’altro confine del gran partito. Com’era inflessibile quello così era concreto e aperto questo, figlio di un liberale antifascista, ispiratore dell’Aventino e massacrato da un banda di fanatici.

Col fascismo Ingrao ha flirtato in gioventù, ma è capitato a tanti, se non a tutti. Poi è stato partigiano e dall’immediato dopoguerra dirigente comunista. Nel sessantotto in tanti s’innamorarono di lui, il più vicino ai cosiddetti movimenti. Poi quando, nel 1976, ha sostituito Pertini alla presidenza della Camera, Ingrao è diventato un uomo delle istituzioni. Sempre con suo volto imbronciato e il tono baritonale della voce. Tanto pacato da far sembrare Pertini l’estremista. Ma quando Occhetto decise alla Bolognina di cambiar nome al Pci s’inventò un’altra storia. Tutti chiedevano implorando il cielo: “Che dirà adesso Ingrao?”. Per andare controcorrente, sempre, mentre Occhetto parlava del nome, lui s’inventò la via nuova sostenendo che bisognava parlare della cosa. Tanto che per un anno il Pci fu solo “la cosa”.

Perché se parlava Ingrao era come l’oracolo di Delfi. In molti andavano nel suo santuario a interrogarlo e lui rispondeva emettendo le sue sentenze. Non voleva fare parte di un soggetto qualsiasi, ma di un partito collegato con le sue tradizioni. Era caduto il comunismo? Ma lui che c’entrava? Forse non se ne era neanche accorto. Il suo comunismo era altrove. I calcinacci di quel muro riguardavano quelli che a quel sistema avevano creduto. A cent’anni arrivano in pochi. Anche il comunismo è durato meno. Ingrao è la dimostrazione, forse, che non sempre gli uomini sono mortali. Se Berlusconi potesse avere questa facoltà diventerebbe anche lui, di sicuro, comunista. Ma anche lui a modo suo.

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