Il Psi e il caso Moro
Si respirava un’aria pesante quel mattino, il 16 marzo del 1978, mentre stavo arrivando in auto al casello di Bologna, dove ero convocato per il Comitato regionale del Psi. Ero un giovane segretario di federazione di appena 26 anni e non mancavo mai alle solite liturgie politiche. D’improvviso m’avvicina un’auto di grossa cilindrata e dal finestrino s’affaccia il volto tirato di un consigliere regionale di Reggio Emilia che conoscevo e che mi grida: “Hanno massacrato la scorta a Moro e lo hanno rapito. Stavolta non ci sono solo le bierre. Qui ci sono professionisti”. Noi conoscevamo bene i vari Gallinari, Pelli, Franceschini, Paroli, tutti reggiani, e ritenevamo, forse sbagliando, che costoro non fossero in grado di realizzare un’azione cosi meticolosa, criminalmente perfetta. Marcia indietro e tutti di ritorno a Reggio Emilia ove era convocato d’urgenza il Consiglio comunale e promossa una grande manifestazione sfociata in piazza Martiri con discorso in lacrime del segretario della Dc.
Son trascorsi quattro decenni dalla strage di via Fani con la quale il dirigente democristiano iniziò il calvario della sua tragica detenzione. Era il giorno in cui per la prima volta, dopo la fase delle astensioni al governo monocolore di Andreotti, si formava una maggioranza programmatica col voto favorevole anche del Pci. Non accadeva dal 1947. Ormai si conosce quasi tutto di quel delitto. Si conoscono i nomi dei responsabili che spararono in via Fani, anche grazie alle deposizioni dei due pentiti Morucci e Faranda. E si conoscono i nomi dei brigatisti che tennero prigioniero Moro, il luogo e anche l’identità di colui che l’uccise. Non Prospero Gallinari, come si pensava, ma Mario Moretti, il capo dei brigatisti in libertà.
Quello che si continua ad ignorare nei dettagli é il motivo di tanta superficialità nelle indagini e nelle azioni degli organi preposti. Il mistero della seduta spiritica col nome di Gradoli (ma davvero si può credere che non si sia trattato d’una soffiata?) e lo scambio di una via con un paese. Le indiscrezioni che avevano portato fino alla soglia di Via Montalcini dove era la prigione di Moro. E anche il motivo della cosiddetta strategia della fermezza che, sposata con quella della superficialità, portò Moro a morte. Come é noto solo Craxi pose la questione se non di una trattativa diretta almeno di un’azione a scopo umanitario per salvare la vita dell’ostaggio. Fino ad ipotizzare lo scambio uno-contro uno, di una prigioniera malata col presidente della Dc. Questa idea sarebbe stata poi fatta propria dalla Dc proprio nel giorno del macabro ritrovamento del cadavere di Moro. Recentemente Occhetto ha voluto motivare questa tesi con lo scopo di far fallire il matrimonio tra Dc e Pci. Craxi e il Psi giocavano dunque sul cadavere di Moro, al pari dei brigatisti, che deposero la sua salma proprio in via Caetani, a metà strada tra via delle Botteghe Oscure e piazza del Gesù. Non riconoscere ai socialisti (Saragat fu della stessa opinione di Craxi, mentre Pertini sposò la linea di Andreotti e Berlinguer) una loro vocazione specificatamente umanitaria vuol dire uccidere la loro identità. Craxi fu coerente e anche in seguito sui casi Dozier e Achille Lauro, con risultati ben diversi dal tragico esito del caso Moro, si mantenne sulla identica posizione. E non c’era, allora, nel 1982 e nel 1985, alcun matrimonio in vista tra Dc e Pci
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