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Il trionfo di Tosca alla Scala: “E le stelle lucean…”

9 Dicembre 2019 489 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Tosca sensazionale. Ad affetti magici. Con un cast d’altissimo livello, accompagnato da un’orchestra diretta in modo impeccabile e con regia e scenografia di stampo cinematografico. Chissà perché la Tosca pucciniana non era stata ritenuta degna, da troppi anni, d’apparire in un Sant’Ambrogio scaligero. Si tratta di un capolavoro che apre in senso musicale il novecento. La prima fu al Costanzi di Roma nel gennaio del primo anno del secolo scorso. Ma Puccini aveva macinato il dramma di Sardou per oltre dieci anni. Aveva chiesto a Ricordi di acquistarne i diritti già nel 1889 dopo averla gustata in teatro in forma di prosa, poi se n’era disinnamorato passando al dramma prevostiano di Manon e il soggetto era stato trasferito al reggiano Alberto Franchetti. Dopo Bohéme, il compositore di Torre del Lago ritornò a Tosca (Franchetti aveva esitato troppo) e nel lavoro sul soggetto di Sardou furono subito coinvolti i suoi due librettisti storici: Illica e Giacosa.

Ma la modernità di Tosca sta tutta nella sua parte orchestrale. Troppo spesso si é giudicato a torto Puccini il cantore di melodie dolci e di donnine senza nerbo, ammalate e succubi. In Tosca basta pensare all’attacco di quinta eccedente che tratteggia l’aria di Scarpia e che apre l’opera per rendersi conto dell’annuncio di una modernità novecentesca. Di wagneriano Tosca ha il leit motiv ricorrente, e più volte accennato e spezzettato, poi troncato e a volte nascosto. Ma di pucciniano ha la levatura eccelsa di un armonico tessuto che rimanda a Debussy e a Stravinsky, e anche al primo Schoenberg. La scena finale del primo atto, il meraviglioso Te deum é un quadro di prima grandezza, in cui orchestra, coro, con l’apporto di Scarpia che mormora il suo proposito di concupire Tosca, dopo la meravigliosa aria “Tre sbirri, una carrozza”, é di rara intensità. Un ensemble in cui d’un tratto l’orchestra s’annulla, per lasciare la parola al cantato, per poi riprendere d’incanto e terminare l’atto a mo’ di coupe de theatre. L’aria dell’amore e quella di Scarpia si propongono continuamente, s’inseguono e s’intrecciano, come si collegano qui più che altrove i dettami dell’amore e della morte. Forse più di Tosca é Scarpia il vero protagonista dell’opera e i due sentimenti contrapposti sono in lui sempre collegati. Coerentemente tenuti insieme dalla sua cupa concupiscienza. Come la confessione della sua concezione dell’amore come atto violento e il suo paragone con Yago: a lui un fazzoletto, a me un ventaglio, strumento per accendere di gelosia Tosca e farla confessare. Di Luca Salsi, lo Scarpia scaligero, si può dire solo bene. Portato in prima fila da Riccardo Muti, ha raggiunto i vertici del teatro d’opera mondiale. La sua interpretazione di Scarpia é convincente, lustrata di tutti gli orpelli maniacali che facevano cantare i baritoni a bocca storta (l’ultimo esempio quello di Raimondi) per mostrare livore, Salsi esprime col testo, col canto e il movimento il senso della sua perversione. Senza forzare nella distorsione del cantato. Anna Netrebko é oggi la più grande protagonista del teatro d’opera. La sua Tosca é tratteggiata in modo inappuntabile. La sua voce calda e intensa nei registri bassi é ineguagliabile. In quelli alti ugualmente perfetti. Forse meno credibile della Kabaiwanska e della Callas nei duetti d’amore, s’accende però anche di maggior passione negli effetti della sua gelosia e di inusitata violenza al cospetto degli affondo sadico-erotici di Scarpia. Una Tosca, la sua, a colori accesi come i vestiti che porta in scena. Il Cavaradossi di Francesco Mieli é tratteggiato con meno impeto di quello trasmesso da un Corelli o da un Kaufmann, ma la sua impostazione lirica e la sua vocazione a usare spesso le mezze voci, ne fanno un personaggio forse anche più coerente. Pittore innamorato d’una cantante d’opera, dotato di rara sensibilità, dunque, e volterriano, come accusa la Chiesa del tempo. Amico del console della spenta repubblica romana, l’Angelotti, fratello della contessa Attavanti che lo aveva rapito coi suoi occhi azzurrini che avevano infiammato di furore la sua Floria Tosca, si scelga a quale vocalità ispirare Mario Cavaradossi. Il timbro squisitamente lirico di Meli e la sua vocalità sono godibili, convincenti. Meno potente, più leggero di Kaufman che alla Scala cantò Tosca nel 2011, ma forse più attento alle diverse sfumature del personaggio, Meli pittura un canto melodicamente ineccepibile. Riccardo Chailly ha diretto in modo impareggiabile un’orchestra scaligera invero superba. Ora alternando i pianissimi e i fortissimi anche nella celebre romanza “E lucean le stelle”, ora ripiegandosi nei duetti d’amore ed eccedendo in esplosioni nelle parti in cui si esprimono gelosia e morte. David Livermore ha bissato i trionfi dell’Attila verdiano dello scorso anno. Anche in Tosca Livermore accentua i cambi di scena utilizzando la tecnologia. Veramente innovative e commoventi le due immagini conclusive del secondo e del terz’atto, quando, nel primo caso, Tosca rivede l’atto omicida nei confronti di Scarpia, come se fosse altro da sé e poi nel finale quel volo verso il cielo, sospeso, di Tosca, da Castel Sant’Angelo. I sedici minuti di applausi col quale il pubblico scaligero ha voluto salutare questa produzione sanciscono un trionfo meritato, secondo solo per tempo, all’Armide di Gluck, diretta da Muti e con la regia di Pizzi. Dalla 21 e 17 alle 21 e 33 un uragano di battimani, neanche paragonabili a quelli, sia pur prolungati, riservati all’inizio a Mattarella. Tra gli invitati anche il ministro Franceschini. Avrà capito, osservando Angelotti e Cavaradossi, che in politica si può anche perdere la poltrona e rischiare per i propri ideali?

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