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A proposito dello Statuto dei lavoratori

25 Marzo 2012 1.923 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Giacomo Brodolini, ministro del Lavoro del governo presieduto da Mariano Rumor, morì qualche mese prima che la sua legge (la 300, ovvero lo Statuto dei diritti dei lavoratori) venisse approvata dal Parlamento, dopo un lavoro attento e competente di Gino Giugni. Brodolini era un sindacalista che aveva ricoperto le funzioni di segretario aggiunto della Cgil, poi deputato, di origine marchigiana (era nato nella patria di Leopardi, a Recanati), era anche stato vice segretario del Psi al tempo del primo centro-sinistra e cioè dal dicembre del 1963 fino al 1966. Nel 1968 divenne ministro del Lavoro nel secondo governo Rumor. In coerenza con il programma che i socialisti avevano perseguito in quegli anni, così densi di leggi riformatrici e innovative (dalla pianificazione, alla legge agraria, alla nuova scuola media unficata, alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, alla riforma sanitaria, alle regioni e altro ancora) e dopo che già, su pressione del Psi, erano state approvate le norme che tutelavano il lavoro femminile evitando discriminazioni sessuali, Brodolini spese quell’anno che lo separava dalla morte (aveva un tumore alla gola ed era consapevole della sua fine) alle norme in materia di diritti del lavoro. Ne uscì quella legge che verrà approvata nel 1970, dopo la sua morte, ma che a tutti ricorderà il suo nome. Quella legge fu votata dai partiti di governo (Dc, Psi, Pri e Psdi) e dal Pli, non da quelli di opposizione. Il Pci si astenne e anche il Msi fece identica scelta. L’astensione del Pci raccoglieva molte perplessità della stessa Cgil, che si vedeva sottratta una parte della sua materia contrattuale (che il ruolo del sindacato sia sempre più importante del merito delle questioni è davvero curioso). D’altronde eravamo reduci dall’autunno caldo e da un sindacato fortemente politicizzato che si era messo all’avanguardia in alcuni suoi settori, e soprattutto in quello metalmeccanico, con piattaforme di lotta di ordine prevalentemente politico. In fondo lo Statuto dei diritti dei lavoratori era un metodo riformista di considerare la possibilità di conciliare il capitalismo con la dignità dei lavoratori, soprattutto in una fase in cui ancora si assisteva a un forte processo di industrializzazione dell’Italia, cominciato negli anni cinquanta, al quale non sempre aveva corrisposto (ma il centro-sinistra voluto da Nenni a questo riteneva di poter essere utile) un aumento della democrazia e del benessere dei lavoratori. Oggi, e cioè quarantadue anni dopo, anche i figli di altre storie si vantano dello statuto e rendono omaggio, ritenendolo quasi un feticcio intoccabile, all’ articolo 18, che vieta i licenziamenti senza giusta causa nelle aziende con più di 15 dipendenti. Si dimenticano molte cose. Sullo statuto dei diritti dei lavoratori si sono svolti, negli ultimi dodici anni, ben tre referendum. Il primo, nel 1995, per modificare l’articolo 19, e cioè per riservare le rappresentanze sindacali interne non più ai grandi sindacati, ma ai soli sindacati che avessero approvato i contratti nazionali o locali. E questo referedum passò coi voti della sinistra, che oggi invece ne contesta l’uso alla Fiat. Il secondo referedum, che si tenne nel 2000, prevedeva l’abolizione dei diritti nelle aziende sopra i 15 dipendenti e venne bocciato perché vi partecipò solo il 33% degli aventi diritto. Il terzo, che si è svolto nel 2003, su pressione di Rifondazione, e che prevedeva invece l’ampliamento dei diritti anche alle aziende sotto i 15 dipendenti, è stato il più bocciato. Vi ha infatti preso parte solo il 25% degli aventi diritto al voto. Altro che “Giù le mani dall’articolo 18”, come ho letto da più parti. Le mani sull’articolo 18 le hanno messe in tanti, non solo la Fornero.

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