Totem e tabù
L’Italia resta in crisi. Alla recessione si è aggiunta la deflazione. In dieci grandi città i prezzi al consumo sono calati e questo significa che la domanda si è indebolita e dunque la produzione dei beni sarà ancora più lenta. Secondo la commissione europea abbiamo sbagliato i conti e l’anno in corso si concluderà con un meno 0,1 di sviluppo e non certo con il più 0,6-0,8 preventivato. Come ricorda Polito sul Corriere è il quarto anno che avviene. Sbagliarono le previsioni Berlusconi, Monti, Letta e adesso Renzi. Un poker di errori.
Quel che sarebbe stato necessario era procedere subito su: riforma del mercato del lavoro, tagli reali alla spesa, diminuzione della pressione fiscale sul lavoro e le imprese, rilancio degli investimenti pubblici. Per ora il governo si è concentrato sulle riforme istituzionali e sugli ottanta euro. Era un calendario opportuno? In altri paesi, il caso della Spagna e del Portogallo è sotto i nostri occhi, si é fatto il contrario, anche se il prezzo pagato dai cittadini é stato altissimo. Tra l’esempio dell’Italia, che per ora non decide, e quello degli iberici, che tagliano stipendi e pensioni, ci deve essere una via di mezzo.
Il Jobs act in sé appare un’ottima cosa. Non una novità. Se avessero dato retta a Pietro Ichino, e prima al nostro Marco Biagi, queste riforme sarebbero già nel cassetto. Vedasi il contratto unico a tutele crescenti e quella che Biagi definiva la transizione tra statuto dei lavoratori e statuto dei lavori. Si è preferito litigare sull’articolo 18. E riportare tutto all’anno zero. Lo dico anche per i socialisti che lo statuto dei lavoratori vollero con Brodolini: il mondo cambia, la struttura del lavoro anche, e litigare ancora su un testo approvato nel 1971 può solo interessare qualche integralista che nel sindacato o nell’impresa continua a credere che il mondo vada all’indietro.
Quando venne approvato lo statuto dei lavoratori il debito italiano era al 40 per cento del Pil, la disoccupazione era ben al di sotto di quella attuale e quella giovanile non era certo il primo problema per giovani che sognavano la rivoluzione. Chi si laureava nel giro di qualche mese aveva un lavoro. Il problema da combattere non era certo la deflazione, ma semmai l’inflazione che ancora in termini accettabili aiutava però produzione, investimenti e risparmi. Il lavoro era ancora prevalentemente dipendente. La terziarizzazione era già cominciata. Ma non ancora così invadente. L’informatizzazione lontana. E così la globalizzazione. Gli operai lottavano non tanto per migliori salari ma per avere più garanzie e potere in fabbrica. Era l’epoca dei consigli.
Non sto a descrivere i possenti cambiamenti. E la priorità oggi affidata al lavoro, non tanto al potere del lavoro. La mancata crescita penalizza chi il lavoro non ce l’ha e in particolare i giovani. E il debito è schizzato, anche grazie alla recessione, oltre il 130 per cento del Pil, secondo solo a quello della Grecia. Tutta colpa dell’Europa? Ma chi ha sottoscritto i trattati europei? E perché l’Italia non ha chiesto di rivederne i parametri? Magari avrebbe avuto anche il diritto di pretenderlo? La politica italiana di questi vent’anni è stata debole. E balbettante. Sia rispetto all’Europa, che adesso chiede garanzie a noi e rinvia anche l’erogazione dei fondi strutturali, sia rispetto alle riforme mai fatte. Renzi per ora tiene con i suoi annunci e promesse e virate sulle riforme sostituzioni e sugli ottanta euro che diventano una sorta di litania dei suoi. Ma ho l’impressione che se non si affretta a svoltare sui temi economici, con riforme anche impopolari, presto entrerà in crisi anche lui. I totem non si fronteggiano coi tabù. Ma con precise assunzioni di responsabilità.
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