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Il 1992 socialista. Il punto di partenza, il 1989. Prima puntata.

5 Settembre 2016 1.772 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

La fine del Pci

Il Pci non era ancora Pds e per il momento era solo “la cosa”. Quel termine gliel’aveva affibbiato Pietro Ingrao, che aveva consigliato, prima di pensare al nome, di pensare appunto alla cosa. Ma cosa fosse mai la “cosa”, questo era per il momento piuttosto misterioso. Era solo chiaro cosa non era più o non voleva più essere, e cioè comunista. E anche cosa non voleva diventare: e cioè socialista italiana. E nemmeno si prefigurava, però, come una sorta di terza via, quella berlingueriana, tra comunismo e socialdemocrazia, perché Achille Occhetto(1) aveva proposto ufficialmente l’adesione del nuovo partito all’Internazionale socialista. L’ex Pci pareva in mezzo al guado e, come ricorderà più tardi Massimo D’Alema (2), sarà Tangentopoli a farlo uscire dal pantano in cui s’era cacciato, con Craxi che l’attendeva in fondo alla gola sfoderando la sua unità socialista (3). Il Pci, o l’ex Pci, a questo punto era tutt’altro che un masso uniforme, anzi presero improvvisamente e progressivamente forma diverse correnti di pensiero e di azione tanto che il vecchio Pci si sfrangiò in più corpi. Uno di questi assunse il nome di riformista e venne capeggiato da Giorgio Napolitano (2) (con Emanuele Macaluso, Gianni Cervetti, Lanfranco Turci, Gerardo Chiaromonte e altri, compreso il reggiano Vincenzo Bertolini).
Sosteneva un chiaro pronunciamento a favore del socialismo europeo e italiano, cioè si orientava più o meno verso l’orizzonte dell’unità socialista, superando le ragioni storiche della scissione di Livorno e assumendo in pieno il filone turatiano del socialismo italiano. Era una corrente che si affidava all’identità. I suoi esponenti erano quasi tutti di formazione togliattiana e, avendo separato Togliatti dall’Urss e dal comunismo, si ricollegavano alla vocazione riformista e non certo rivoluzionaria del Migliore.
D’altronde un Togliatti, quello del dopoguerra, senza comunismo diventava più o meno simile a Turati. Come all’identità si affidavano le due correnti di sinistra: quella che faceva riferimento a Cossutta, che era determinata a respingere nettamente la proposta di Occhetto relativa al superamento del comunismo italiano, e quella dei cosiddetti “comunisti democratici” di Ingrao, Tortorella, Angius, che si situava a metà strada e voleva un rinnovamento parziale. Mi sembrava che il Psi dovesse muoversi subito. Certo non era facile inserirsi dentro il dibattito dell’ex Pci, con tutte le sfumature e le questioni politiche e anche personali che alimentavano il confronto nel gruppo dirigente e finivano anche per disorientare la base. L’ultima delle cose possibili e utili per noi mi sembrava quella di valorizzare la posizione di Cossutta, cioè dei veterocomunisti. L’affermazione dei veterocomunisti era davvero imprevedibile anche se, dal punto di vista di Craxi, che vedeva l’operazione di Occhetto come un pericolo (mi disse a Bologna al congresso del Pci: “Questa operazione è rischiosa per noi come quella del polo laico delle europee”(4) ), una posizione filo-veterocomunista poteva trovare qualche argomento convincente.

La vittoria socialista si trasforma in imbarazzo
Ragionando in questo modo, però, il gruppo dirigente del Psi visse questi mesi di profonda trasformazione in difesa, anziché in discesa. Cioè non convinto, come avrebbe dovuto essere, che ormai la battaglia storica tra socialisti democratici e comunisti era vinta e che occorreva dunque procedere a fissare tempi e tappe per riunificare la sinistra italiana, ma al contrario come una sfida dei post comunisti per insidiare lo spazio tradizionale del Psi. Sembrava che tutto dovesse dipendere dal patto di governo con la Dc. Andreotti doveva arrivare alla fine della legislatura e poi riconsegnare il testimone a Craxi. Era nei patti siglati? Era tuttavia nel novero delle probabilità. Ma nel mezzo c’era stato il cambiamento epocale in Europa e le sue conseguenze in Italia sembravano, anche a chi guardava con superficialità al nostro sistema politico, davvero inevitabili. Cos’aveva tenuto insieme il sistema politico italiano, molto più di tutti gli altri sistemi europei? Era stata l’alternativa tra comunismo e anticomunismo la questione che aveva sorretto e alimentato il quadro politico, lo aveva giustificato e corroborato anche nella sua dimensione così pesante e costosa. E dentro la sinistra il contrasto tra socialismo democratico e comunismo aveva per decenni contrassegnato un confronto fatto a volte di subalternità e, negli ultimi anni soprattutto, di scatti di autonomia e di conflitto. Ebbene, una volta estirpato dall’Europa il comunismo (è vero, reggeva ancora il comunismo democratico di Gorbaciov in Urss, ma da lì a qualche mese anche l’Urss si sfascerà) cosa rimaneva in Italia per riprodurre il vecchio sistema politico e le antiche differenze? Certo Occhetto ci metteva del suo con l’ossessione di “andare oltre”. Ma anche quel confuso “oltrismo” non spaventava più, non aveva più nulla a che vedere con l’effetto K che alla fine precludeva l’associazione dei comunisti al governo e rendeva per di più irrealizzabile l’alternativa di una sinistra a prevalenza comunista. Craxi non lo capì. Gli sfuggì il momento storico della vittoria, il suo significato che in breve si poteva trasformare in sconfitta, anzi in tracollo. E puntò al continuismo, pensando che poi alla fine il Psi, e ancor più la Dc, avrebbero retto e con loro il vecchio sistema dei partiti italiani. Che il post Pci si sarebbe al massimo accontentato di appoggiare un governo a presidenza socialista, che poi gradualmente avrebbe accolto nel suo seno qualche ministro, come mi confidò in Transatlantico nel 1993. Come se il nuovo partito fosse rimasto il vecchio Pci, ancora impegnato nel lento percorso della sua piena legittimazione democratica. Un Pci berligueriano degli anni settanta ancora intento a procedere sulla via del compromesso storico. Il nuovo partito, che nascerà attraverso un lungo periodo di gestazione, passerà attraverso due congressi traumatici e si presenterà come un soggetto che aveva rotto col comunismo subendo una traumatica scissione e provocando una duplice rifondazione. Oltretutto, anche restando sul versante di governo, perché mai la Dc, che aveva seminato mezza Italia di giunte assieme ai comunisti, avrebbe dovuto decidere di continuare una dispendiosa alleanza col Psi senza puntare direttamente a un’intesa col nuovo partito che col comunismo aveva deciso di rompere? E questo anche in base al vecchio detto dei due forni di andreottiana memoria…

Craxi in difesa
Anche questa paura originò in Craxi l’idea che l’equilibrio di governo non dovesse essere messo in discussione. In realtà la questione che Craxi intuì subito fu il rischio che poteva finire lo spazio di interdizione del Psi, quello che lui stesso aveva utilizzato per la politica della governabilità dopo gli anni dell’unità nazionale, rilanciando il partito come componente della sinistra di governo. Sì, quello spazio veniva meno. Ma se ne poteva aprire un altro, oppure si poteva lavorare seriamente e scrupolosamente per chiudere decisamente a chiave il processo di rinnovamento del Pci, tagliandogli la strada, sfidarlo a metà del guado, con elezioni anticipate che gli avrebbero complicato e di molto il cammino. E favorire l’intesa coi riformisti dell’ex Pci che potevano anche lasciare il partito e unirsi al Psi se quel processo avesse assunto forme per loro inaccettabili. Craxi non scelse né l’una né l’altra strada e rimase in attesa. Non aprì a Bologna al congresso del Pci, tanto che, Giuliano Amato ed io gli eravamo vicini al palasport bolognese, scriveva i suoi auguri a tutti i capi corrente nessuno escluso senza poi rivelare alcuna preclusione e preferenza. E alla fine sostenne che era difficile dare un giudizio su un partito che doveva assumere un nome che non era svelato, con una politica e un programma che non si conoscevano. Alla sera poi, dopo la cena, in via Zamboni, venimmo aggrediti da un gruppo di giovani studenti di estrema sinistra con offese e sputi e l’avvenimento, era presente anche Fabio Fabbri (5), certo non alimentò una maggiore propensione ad aperture a sinistra. Il giornalista Paolo Mieli, allora di tendenza socialista, fermò poi Craxi nella hall dell’albergo e gli chiese se non ritenesse che “la cosa” ex comunista fosse seria e se non fosse il momento di aprire all’ex Pci e Craxi alzò le spalle ancora coperte di sputi e si rintanò in stanza bofonchiando parole. Certo l’odio per Craxi del popolo comunista, ancor più che nel gruppo dirigente, era alto. E non erano bastate la caduta del muro e la fine del comunismo per attenuarlo. Anzi, da un certo punto di vista, lo avevano ancor più alimentato. Riconoscergli di avere avuto ragione contro i comunisti non era davvero pensabile. Anzi tutto il lungo, confuso, travagliato itinerario fissato da Occhetto pareva fatto apposta per dimostrare alla base comunista che si poteva superare il comunismo senza per questo diventare craxiani. Quest’ultima possibilità, però, era assolutamente concreta e Craxi non lo capì. Immaginò che quel nuovo partito che per il momento era solo “la cosa”, dipendesse da lui, delle sue aperture e chiusure, dai suoi scontri e incontri, dalle sue lusinghe e dai suoi silenzi, delle sue perduranti intese con la Dc e in particolare con Andreotti e Forlani, il misterioso e mai esistito Caf. Per questo attendeva, come se anche l’ex Pci dovesse attendere e il sistema politico italiano fosse in attesa. Non era così.

Le due vie che Craxi non intraprese
Craxi doveva insistere e investire davvero e subito sull’unità socialista senza prospettarla come una semplice prospettiva d’avvenire. Doveva e poteva fissare l’incontro per il 1992, il centenario della fondazione del partito dei lavoratori, e magari anche procedere immediatamente con la proposta di comitati di unificazione socialista nelle province. E se gli ex comunisti avessero rifiutato ciò che era giusto storicamente e politicamente, e certamente apprezzato e appoggiato dall’insieme dei socialisti europei e dalla stessa Internazionale, allora doveva sfidare subito i comunisti, affidarsi ad un appello a chi all’interno dell’ex Pci era più sensibile alla riunificazione delle membra divise della sinistra italiana. E magari anche mettere da subito in discussione il governo Andreotti per costruire un nuovo partito socialista più grande e unito. E pazienza se i post comunisti Andreotti lo volevano appoggiare loro, come del resto era già accaduto. Pazienza e allegria. Perché magari si poteva costruire una moderna socialdemocrazia dell’alternativa senza di loro che si sarebbero sfaldati assieme alla Dc coi calcinacci del muro di Berlino. Altro che paura. Invece non si fece nulla. E i tre anni che separano il 1989 dalle elezioni del 1992 e dall’esplosione di Tangentopoli e dai referendum di Segni furono contraddistinti da una notevole inerzia del Psi. Dov’era finito il Craxi innovatore e spregiudicato che aveva sfidato le mode e i tabù della sinistra italiana, dov’era finito il Craxi di Proudhon e della grande riforma? Non era questo il momento di oliare gli artigli e di rischiare, di puntare l’intera posta sul tavolo da gioco? Il nostro leader tentennò. Forse influì anche la sua malattia, quel diabete che lo tormentava e che alla fine del 1989 aveva determinato una grave disfunzione cardiaca, con un ricovero d’urgenza al Niguarda. E anche, come qualcuno sosterrà più tardi, perché allora nel privato la stampa non entrava, forse lo indebolì una tormentata vicenda sentimentale. Scrive Ugo Finetti a proposito della titubanza d’inizio 1991 sulla crisi del governo Andreotti e sulla mancata scelta delle elezioni anticipate: “L’errore riflette non uno stato di arroganza, ma di insorta debolezza fisica, una sostanziale stanchezza e un abbassamento della guardia” (6). Tuttavia Craxi era uomo dotato di intuito, aveva la tempra del combattente nato. Non poteva restare al palo. E questo proprio nel momento in cui il suo partito aveva vinto la sua battaglia nella storia. Il Psi aveva bisogno del Craxi migliore e si trovò invece un altro Craxi. A gennaio del 1990 Berlusconi è presidente della Mondadori e De Benedetti inizia la sua controffensiva che lo riporterà al comando con Craxi più attivo che non sul crollo del muro. D’altronde, era troppo rilevante quella scalata e c’era da comprenderlo. Mettere le mani sulla proprietà del quotidiano “La Repubblica” dell’odiato Scalfari non era più una semplice ambizione, anche se alla fine l’operazione fallì. E si ebbe la netta impressione che lo stesso Scalfari e De Benedetti, quello che Intini chiamava “il partito trasversale di Repubblica”, con De Mita e La Malfa in prima fila, lavorassero per orientare la svolta di Occhetto altrove e non certo verso il naturale approdo dell’unità socialista.

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