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Il merito e il bisogno oggi (testo della mia relazione al convegno di Milano)

10 Novembre 2017 1.434 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Come ho già confessato, siccome Renzi ha scritto Avanti io, che di questo giornale sono direttore, sto scrivendo l’Unità. Si tratta in realtà di un doppio paradosso. Con Avanti Renzi è andato indietro e parecchio in Sicilia, mentre il titolo L’Unità è volutamente provocatorio per raccontare le divisioni, le scissioni, le radiazioni in seno alla sinistra italiana. O meglio le diramazioni di quel maestoso fiume del quale ci parlava Filippo Turati, la cui sorgente fu la nascita, 125 anni fa, del primo partito dei lavoratori. Se queste divisioni appartenevano a conflitti storici, a diverse visioni del mondo, come mai oggi esse sopravvivono a loro stesse e nell’area della sinistra si affaccia un folto raggruppamento di sigle quale mai è esistito in passato?

C’è quasi un’idiozia di fondo che anima i diversi comportamenti. Cioè che debba esistere ancora la sinistra con tanto di sacerdoti, profeti, seguaci. E non invece soggetti dotati di idee che possono trasformarsi in cose concrete. Forse la sinistra italiana non si è mai laicizzata, è sopravvissuta a se stessa. E qui che si dovrebbe innanzitutto correggere il lessico politico italiano. E la domanda da porsi semmai è la seguente, assai più pertinente di quella che si riferisce alle sue divisioni. E cioè: perché la sinistra, cioè i partiti socialisti, ma anche gli altri soggetti, perde ovunque consensi in Europa e anche in Italia? E partendo dalla seconda domanda si può più facilmente rispondere alla prima.

Per anni la divisione nasceva da un convincimento: e cioè che l’ideologia fosse più forte della realtà. Che valesse di più la coerenza con un testo, che non un risultato prodotto. Meglio gli slogan del Pci dei risultati del centro sinistra, insomma. Resta il fatto che, a prescindere dalla Francia di Macron, non è stato elaborato un nuovo pensiero politico. Se mi venisse in mente un nuovo convincimento programmatico, un’intuizione originale nata a sinistra in questi ultimi anni in Italia mi viene in mente solo quello della rottamazione. Certo che passare dal dogma del marxismo a quello della rottamazione è un amaro segno dei tempi. Scrive a tale proposito Emanuele Macaluso: “Qualcuno si offende quando dico che una volta un bracciante emiliano e un contadino delle Madonia avevano cultura politica, interesse e visione del mondo superiori a quelle dell’attuale classe politica”. Come dargli torto? Questo vuoto si alimenta anche con il recupero di vecchi riti come quello della scomunica. Anche oggi vengono politicamente bollati come non di sinistra, fuori dalla sinistra, o non sufficientemente di sinistra, partiti e personaggi politici senza possibilità di replica. Oppure come vecchi, troppo utilizzati, riciclati, personalità di valore in nome di una nuova ideologia che Ugo Intini ha definito “la lotta delle classi”… L’adesione al culto del nuovo, più a sinistra che non a destra per la verità (ma la destra repubblicana è stata storicamente meno propensa a irrigidirsi su un dogma, su una teoria o una profezia), tutto questo ha spinto a riconoscere l’inesperienza perfino come un merito e l’esperienza come un difetto, capovolgendo i valori logici della realtà. E senza comprendere che anche questa parola, la sinistra o se volete la più attuale definizione di centrosinistra italiano, è priva di significato se non la si avvalora di precisi e attuali programmi e comportamenti. Dico subito che se la parola sinistra deve avere con sé un concreto presupposto programmatico, la parola socialismo deve associarsi a mio avviso a due aggettivi ineludibili, e cioè riformista e liberale. Altrimenti la prima diventa vacua e la seconda potenzialmente perniciosa. Bisognerebbe oggi azzerare molte cose e ripartire da capo. E guardate che solo così oggi si può leggere il presente e lavorare per un futuro migliore. Radere al suolo le antiche certezze e riformulare un percorso. E forse arrendersi al titolo di un’opera di un musicista contemporaneo: “No hay caminos, hay que caminar”.

Non siamo stati noi per primi a distruggere i miti? Non abbiamo fatto noi della revisione e non dell’ortodossia la nostra bussola? Quella di un revisionismo riformista e liberale del socialismo, definito quasi sempre dai nostri interlocutori come deviazione quando non come tradimento. Dna perduto. Come se la politica fosse un campo seminato da certezze assolute che non conoscono il trascorrere del tempo, il tramonto degli uomini e il procedere delle trasformazioni. Noi abbiamo profuso il meglio di noi stessi, molto prima di Blair e di Macron, per laicizzare la religione marxista e condannare, contrapponendola al pluralismo, quella leninista, quando ancora nella seconda metà degli anni settanta, il Pci dal marxismo-leninismo aveva solo tolto il trattino. E oggi ci interroghiamo se alla luce della crisi economica e della prevalenza della finanza sull’industria e nell’industria, non sia il caso di tornare agli anni precedenti le nostre revisioni, tacciando i governi dell’attuale centrosinistra di non essere sufficientemente di sinistra, e dunque rilanciando il valore intrinseco di una parola, il cui valore assoluto per primi abbiamo contestato. Lo dico perché vedo in giro una certa propensione a cavalcare vecchie e arrugginite teorie: il vecchio concetto di socialismo senza aggettivi, la lotta al mercato, l’idea che il liberismo (che non è mai stato nostro) sia di per sé un disvalore, una nuova vocazione alla statizzazione. E perché no la riscoperta, e non parlo solo di Diego Fusaro che su Tangentopoli ha scritto cose apprezzabili, ma anche nel nostro mondo e in quello degli scissionisti del Pd, di vecchie ricette e già conosciute rigidità. Faccio esempi: la dura condanna del Jobs act, che un giuslavorista riformista come Pietro Ichino, che partecipò anche per onorare il socialista Marco Biagi alla Costituente socialista del 2007, ha patrocinato e sostenuto, la preferenza del simbolo dell’articolo 18 rispetto alla possibilità di unificare il mercato del lavoro per creare diritti anche a chi non li ha mai avuti (circa la metà degli occupati) e per alleggerire vincoli che si erano fatti troppo rigidi. La contestazione della Buona scuola dopo avere per decenni sostenuto l’autonomia scolastica. Noi siamo stati per troppo tempo chiusi in casa. Basterebbe leggersi l’Agenda 2010 del cancelliere socialdemocratico Schroeder per capire. O le proposte del governo Vals. E se qualcuno riprende le tesi di Tsipras prima maniera, è subito costretto a rivederle e magari a diventare un seguace di Varoufakis dopo. Anche Corbyn, come Tsipras, se dovesse andare al governo sarà costretto ad emendare il suo socialismo statalista che gli ha fruttato voti anche per la debolezza della sua avversaria. Governare oggi logora, caro Andreotti, logora molto più che restare senza potere. E non può che non destare preoccupazione che gli unici governi capaci di reggere nonostante gli insuccessi elettorali siano quelli conservatori e di destra (penso a Rajoy, alla Merkel e alla May). Altro che lettura più intransigentemente di sinistra. Il mondo, l’Europa, anche l’Italia virano verso destra e i voti in uscita dalla sinistra, penso alla Sicilia, non vanno ai partiti più di sinistra ma si diffondono in vari e apparentemente contradditori rivoli. O si rifugiano nell’indifferenza degli astensionisti, i soli che vincono ormai quasi tutte le scadenze elettorali.

Son trascorsi trentacinque anni da quella conferenza programmatica di Rimini in cui il Psi del nuovo corso, avviato con il Comitato centrale del Midas del 1976, affrontò, dopo il suo “primum vivere”, il suo “deinde philosophari”. E di quella conferenza il perno fu il ragionamento di Claudio Martelli sui meriti e i bisogni. Anzi, sull’alleanza del merito col bisogno. Si trattava della scomposizione della classica teoria classista che era ancora in vigore anche nel Psi, dell’introduzione della categoria del merito dentro lo schema di analisi e di valorizzazione di un partito di sinistra, ma soprattutto di concepire come tra merito e bisogno potesse, anzi dovesse, essere stabilita un’intesa. I portatori di merito, adeguatamente valorizzati, potevano concorrere a risolvere le esigenze dei portatori di bisogno, sia accentuando una ricerca che poteva orientare la società a superare le sue contraddizioni, sia investendo risorse (il decantato rapporto pubblico-privato) per costruire non già uno stato sociale, del quale già allora si avvertivano i primi scricchiolii, ma una società solidale. Il ragionamento di Martelli era teso a declinare il concetto di uguaglianza in quello di equità. Eravamo all’uscita di anni bui, in cui i dogmi avevano indotto alcuni ad imbracciare le armi e altri a sbattere la testa contro il muro dello statalismo e dell’egualitarismo. Martelli non parlò, se non ricordo male, di previdenza (anche se più tardi lanciò primo di tutti l’idea di un patto tra le generazioni intuendo l’avvento di una società di anziani garantiti e di giovani senza speranze). Avrebbe potuto citare il paradosso delle pensioni baby. Parlò dei servizi gratuiti per tutti, in una società disuguale, invero dagli effetti contraddittori. Chi ha la possibilità non paga, e quel che non paga viene pagato anche da chi non ha alcuna possibilità. Così l’uguaglianza diventa iniqua. Il messaggio di Rimini fu una ventata di salutare eresia versato sulle stanche membra di un Pci e di un sindacato (con l’eccezione della Uil di Benvenuto) incapaci ormai di leggere la società che da industriale si era ormai trasformata in post industriale. Molte di quelle intuizioni, sui meriti, sulla uguaglianza iniqua, sulla società solidale, sono stati successivamente presi a prestito da altri e oggi paiono patrimonio comune, se non di tutti, almeno di molti.

Son passati 35 anni e una nuova Rimini, un aggiornamento della teoria e dell’alleanza merito-bisogno, appare interessante, se non opportuna. Iniziamo a farlo, sinteticamente e annunciando i nuovi temi che nel 1982 o non esistevano nella realtà o erano appena accennati. Quasi tutto è cambiato. Non ci sono i partiti di allora, non ci sono più i leader di allora, e per evitare la noiosa rassegna delle cose scomparse non vorremmo ricordare che anche le mezze stagioni non ci sono più. Mi concentro su tre temi. Allora parlavamo di nuove povertà, convinti che quelle vecchie fossero ormai superate in Italia. Oggi, invece, secondo recenti sondaggi, 9 milioni di italiani si trovano in condizione di povertà, 6 di povertà assoluta, tra questi un milione di bambini. Lasciamo stare le cause. L’Italia ha fatto passi da gigante all’indietro, con il 35 per cento dei giovani (negli anni passati sono state toccate punte del 42-43 per cento) senza lavoro. Il merito non é stato premiato. Anzi, molti cervelli italiani sono stati costretti a riparare all’estero. La globalizzazione e il commercio libero hanno riequilibrato il mondo, facendo uscire interi continenti dalla miseria e dalla fame, ma hanno impoverito l’Occidente e in particolare l’Europa, dentro la quale soprattutto l’Italia, assieme alla Grecia, ha subito i colpi peggiori. Il nuovo concetto di equità deve dunque fronteggiare i nuovi fenomeni della globalizzazione e dei vincoli europei, oltre a quello della finanziarizzazione dell’economia. E del conseguente potere forte della finanza cui corrisponde un generale indebolimento della politica. Secondo tema. E’ evidente, oggi più di allora, che i grandi disequilibri, la nuova ingiustizia sociale diffusa, può essere oggi affrontata solo in una cornice europea, con più Europa e non con più stati nazionali, che devono cedere e non acquisire nuovi poteri. Il mondo, ce lo ha ricordato all’Ergife Enrico Letta, che contava, quando siamo nati, non più di tre miliardi di esseri umani, quando saremo morti ne conterrà 10 miliardi. Dei sette miliardi di aumento non una sola unità appartiene al continente europeo. Gli europei che erano un sesto della popolazione del mondo ne diverranno un venticinquesimo. Nel G7 fino a pochi anni fa c’erano tre nazioni europee, tra poco anche la Germania diventerà l’ottavo paese. O l’Europa si unisce o svanisce. L’unità politica dell’Europa con un governo europeo un ministro dell’economia, un esercito europeo e una politica estera unica è la sola prospettive possibile. I sovranisti di destra e di sinistra se ne convincano. Il secondo fronte di elaborazione, dopo l’attualizzazione dell’equità nella società contemporanea, e nella cornice di un’Europa politicamente unita, dovrebbe essere quello ambientale. I Verdi, nel 1982, ancora in Italia non esistevano. Entreranno nei comuni nel 1985 e in Parlamento nel 1987. Divenne questo uno dei temi fondamentali della seconda conferenza programmatica di Rimini, quella del 1990 e mi piace ricordare che, da responsabile del dipartimento ambiente e territorio, toccò proprio a me la relazione introduttiva sul tema. La costruzione di una società eco compatibile (l’eco socialismo) a me pare oggi una necessità, ancor più di allora quando elaborammo il nostro riformismo ambientale partecipando anche ai referendum su caccia e pesticidi, ma promuovendo nuove leggi quali quelle che introdussero le autorità di bacino e la prima legge sui rifiuti speciali dopo lo scandalo delle navi dei veleni. Una necessità soprattutto oggi che ci troviamo di fronte a enormi problemi climatici, a terremoti, alluvioni, incendi, ma anche a crisi energetiche e alla carenza d’acqua nel mondo. Si tratta di un bisogno ancora poco avvertito nel 1982, che oggi non si può ignorare, anche alla luce degli accordi di Parigi messi in discussione dal nuovo presidente americano Trump. Nuovi ricercatori, portatori di merito, possono studiare nuove tecnologie che mettano al sicuro gli esseri umani e i territori dai nuovi fenomeni distruttivi, creando anche lavoro e ricchezza. Dunque equità, Europa, ecologia. La ricetta delle tre E. E per quarta inserirei, non é l’ultima per importanza, la nuova dimensione in cui collocare il tema della libertà. Con almeno due varianti rispetto agli anni ottanta. E cioè la presenza del digitale, che unisce, ma che seleziona ed esclude. Il linguaggio é mutato, sempre più semplificato, quasi schematico, spesso duale, rischia di configurarsi come nuovo dogma. Ai contorni, alle aggettivazioni, alle sfumature, ma anche agli approfondimenti si sfugge per celebrare una sorta di eclissi del principio della delega. Una testimonianza di finta democrazia diretta dove tutti sanno far tutto. Il demerito al potere. La libertà dal dogma informatico é oggi una priorità, soprattutto per le categorie più deboli, i bambini. Dall’altro lato l’insorgenza di un nuovo fanatismo sanguinario e terroristico di stampo islamico ci impone di salvaguardare la nostra civiltà liberale, che é conseguenza della grande rivoluzione illuministica. In gioco ci sono oggi valori che nel 1982 parevano acquisiti: la parità tra uomo e donna, la separazione tra stato e chiesa, la tolleranza per tutte le religioni e per chi non é ha alcuna. L’integrazione rispetto a un fenomeno migratorio, che ha interessato l’Italia solo a partire dagli anni novanta, non può essere né cedimento né compromesso. La società liberale non può accettare una via di mezzo tra libertà e oscurantismo. Resto fedele al vecchio detto di Karl Popper: “Non bisogna essere tolleranti con gli intolleranti altrimenti questi ultimi distruggeranno la tolleranza”.

Equità, Europa, ecologia, ma anche una nuova concezione della libertà possono essere ancor oggi e forse mai come oggi, le nostre parole d’ordine. Questo si intreccia con il tentativo, già in stato avanzato, di presentare una lista elettorale fondata su un nuovo rapporto tra socialisti, radicali,verdi, progressisti, europeisti. Questa intesa a mio giudizio non deve avere solo un valore elettorale. E potrebbe trasformarsi in quello che la Rosa nel pugno non riuscì a divenire. E cioè un nuovo soggetto politico che indichi un programma riformista all’Italia e alla stessa Europa. I vecchi partiti socialisti attraversano una grave crisi. Che a mio avviso è innanzitutto di identità. Non hanno compreso la necessità di superare (difetto storico della seconda internazionale) gli steccati nazionali, non sanno leggere il presente e indicare il futuro. Mancano di progetto unificante. Chissà che in una nuova unione che vada oltre gli steccati del socialismo e vi comprenda il meglio delle altre tradizioni, non si possa ridefinire una nuova unità dei riformisti europei. Un nuovo partito socialista, liberale, ecologista, ma soprattutto europeista. Questa unione tra riformisti in fondo noi proponiamo per l’Italia al di là delle specifiche identità che rischiano da sole di appartenere soltanto al passato

L’intesa possibile deve trasformarsi subito in una grande convention programmatica comune. Per lanciare una lista, per costruire il futuro, come recitava il nostro congresso di Torino, per governare il cambiamento, come ci imponeva quella conferenza di Rimini di 35 anni fa. Chissà che i meriti di questo progetto non vengano riconosciuti dagli italiani che di questo progetto credo abbiano proprio bisogno.

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