Le dimissioni di Zingaretti e la crisi del Pd
Zingaretti sbatte la porta e se ne va. Con un colpo di teatro improvviso il segretario del Pd annuncia su Facebook le sue dimissioni lanciando un atto d’accusa senza precedenti contro il suo partito. Egli annota: “Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni. Visto che il bersaglio sono io, per amore dell’Italia e del partito, non mi resta che fare l’ennesimo atto per sbloccare la situazione. Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità”. Questo però dovrebbe far riflettere tutti sulla natura di questo partito che non solo brucia tutti i suoi leader, da Veltroni a Renzi a Zingaretti, ma che non riesce a costruire, privo di identità storica e politica, un’alternativa credibile alla destra se non affidandosi a qualche improvvisato capitano di ventura. La posizione del duo Bettini-Zingaretti, tesa da un lato alla più completa subalternità al governo Conte e dall’altro a costruire un rapporto strategico coi Cinque stelle, si sta rivelando fallimentare ed é stata messa nel mirino da autorevoli esponenti del Pd. Si tratta di capire se quella di Zingaretti sia una mossa per costringere i suoi oppositori a dichiarargli piena fiducia ritirando la richiesta di un congresso straordinario oppure se la sua decisione, presa senza neppure avvertire i suoi più stretti collaboratori, è definitiva. Resta sullo sfondo una crisi profonda di questo partito, inventato col veltroniano modello americano e con l’ambizione della vocazione maggioritaria, che non può certo essere risolta né con la conferma né con la sostituzione del segretario, ma con una profonda riflessione sulla sua stessa ragione di esistenza. Non si può fondare un partito senz’anima, senza storia, senza un nome e una chiara collocazione sul versante europeo. La crisi della sinistra, inutile ricordarlo ancora, nasce dal rifiuto dell’ex Pci, dopo la sua fine che é seguita alla fine del comunismo in tutta Europa, alla più naturale proposta dell’unità socialista. Per superare la scissione di Livorno e per ricompattare la sinistra storica italiana in un unico grande partito d’ispirazione socialista e democratica. Il rifiuto di Occhetto e D’Alema portò a tracciare un’altra via, accidentata e priva di coerenza storica e politica. Un’unione di forze ex comuniste ed ex democristiane e nel contempo una collocazione tormentata nel Pse ma non nell’Internazionale socialista. Il tutto esaltando un passato che non sta insieme, da Togliatti a De Gasperi, da Moro a Berlinguer. E un presente inquinato da tendenze giustizialiste e antiliberali. Un partito cosí, un unicum nel panorama europeo, non poteva che produrre fallimenti. L’ultimo sondaggio che prevede un Pd al 14% e un movimento Cinque stelle che gli succhia la ruota grazie a quel Conte che lo stesso Pd ha elevato a brillante uomo di stato, é una dimostrazione di forte permeabilità del corpo di questo partito. Quando l’identità é incerta e confusa anche i consensi sono labili, esattamente come accadde dopo la sciagurata alleanza elettorale veltroniana del 2008 che portò Di Pietro a fortificarsi ai danni del Pd. Quando un alleato prosciuga il bacino elettorale altrui é perché non ci sono barriere. Non c’é sufficiente difesa. Non c’é una fortificazione adeguata. Nella storia della sinistra italiana ed europea non c’é mai stato un partito dal quale siano usciti, in pochi anni, quattro tra i suoi massimi dirigenti, due dei quali segretari nazionali. Senza neanche particolari patemi, come ha confessato uno di loro. La mia impressione é però che ancora una volta prevarrà la conservazione dell’esistente, con o senza Zingaretti. Purtroppo.
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