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Un Don Carlo eccellente

8 Dicembre 2023 207 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Il Don Carlo, opera della prima scaligera, é stata rappresentata in tre versioni. Quella per Parigi in francese, il Don Carlos, nelle forme del grand’opera, andò in scena nel 1865, in cinque atti. L’opera venne poi tradotta in italiano e allestita dal Royal Opera di Londra. Infine, nel 1886, per la prima volta a Modena, l’opera venne rappresentata senza il primo atto, quello definito di Fontainebleau, che é prodromico per comprendere, con l’amore di Carlo e Elisabetta, il dramma che si pone ai due giovani a fronte del matrimonio, frutto della pace tra Spagna e Francia, tra la stessa Elisabetta e il padre di Carlo, Filippo secondo. La scelta del teatro alla Scala é stata quella di produrre il don Carlo in quattro atti e di cominciarlo dunque nella tetra atmosfera del chiostro di San Giusto di Madrid dove é sepolto Carlo V, padre di Filippo II. Qui il ruolo dell’orchestra magistralmente diretta da Riccardo Chailly è dominante, accompagnata da un canto cupo di un frate (il grande inquisitore?) che prende le distanze da Carlo perché “Ei voleva regnare sul mondo, obliando Colui che nel ciel segna agli astri il cammino fedel. L’orgoglio immenso fu, fu l’error suo profondo!”. Due temi dell’opera, scritta su un romanzo di Schiller, sono già tratteggiati: l’amore tragico e impossibile di Carlo per colei che é divenuta sua madre e il rapporto tra Stato e Chiesa, anzi la subalternità dello Stao alla Chiesa come riconosce intimamente Filippo II: “Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altare”. A questi due temi, grazie al protagonismo di un personaggio, Rodrigo marchese di Posa, che é al centro di tutto: dell’amicizia sincera, al punto di sacrificargli la vita, per Carlo, delle sfide verbali a Filippo II che pur pare ricambiarlo di un’ammirazione sincera, della pura tensione ideale per il popolo fiammingo devastato, per motivi religiosi e politici, dalla Spagna, di cui reclama l’indipendenza spronando Carlo a farsene interprete, e anche geloso custode dei sentimenti di Carlo per sua madre. Le sue due arie finali, quella che annuncia la sua morte e quella famosa (“Io morrò ma lieto in core”) che canta dopo essere stato colpito, ci riportano al Verdi del trittico, più che a quello, un po’ ripetitivo, de “La Forza del destino” di soli tre anni prima: la facilità a immergersi nella melodia. La tinta musicale del Don Carlo attraversa molteplici colori, tutti così ben condensati nel concertato della quarta scena del terz’atto: la furia di Filippo per il presunto tradimento della moglie (“adultera consorte”), il pentimento di Eboli che, in segno di vendetta, aveva consegnato lo scrigno di Elisabetta contenente la foto di Carlo a Filippo, la disperazione rassegnata di Elisabetta che non può negare ciò che si era amaramente confessato Filippo (“Ella giammai m’amò), la decisione di Posa che ormai ha deciso di sacrificarsi per Carlo. Questa scena, la quarta del terz’atto, appunto, avvolta com’é da un cemento musicale che solo il genio di Busseto poteva immaginare vale da sola tutta l’opera. In un misto di emozioni contrapposte si eleva il movimento di un tessuto musicale che commuove, avvince, convince. Della direzione di Chailly s’é detto. L’orchestra della Scala raggiunge qui la perfezione in un’insieme di decelerazioni e pianissimi che accompagnano anche le romanze dei protagonisti. Dico la verità. Non mi aveva per nulla convinto il dialogo tra Meli e Salsi (Carlo e Rodrigo) né la sola breve aria cantata da Carlo “Io l’ho perduta. Oh potenza suprema”, né il più famoso duetto, inno all’amicizia “Dio che nell’alma infondere”. Troppo cantato, poco interpretato, troppo freddo, poco espressivo. I due, soprattutto Luca Salsi, sapranno rivalersi. Salsi con una prova vocale superba. Bisogna tornare ai tempi di Bastianini e Capuccilli, forse di Protti, per trovare un baritono che non ha alcuna difficoltà ad arrivare non al fa, ma al sol e al la, senza assottigliare la voce. Ma anzi ingrossandola. Protagoniste assolute le due donne. Si ha un bel da dire: Netrebko di qua, Netrebko di là. Ormai la mettiamo ovunque come il formaggio? Il soprano russo ha sfoderato, nella seconda parte dell’opera, e soprattutto in “Tu che le vanità”, una prova maiuscola degna di un’ovazione corale del teatro. La Garrancha é passata dai virtuosismi barocchi della canzone del velo alla più cupa intonazione della vendetta per lo sfregio subito (l’equivoco dell’incontro con Carlo) al pentimento di “Oh don fatale” con una sicurezza disarmante. Eccelsa la sua prova. Il Filippo II di Pertusi ha trionfato a mio giudizio anche grazie all’abbassamento di voce, annunciato dal sovrintendente. Quando un cantante non può forzare deve usare eleganza. E classe nei passaggi e avvincere con l’espressività frutto dell’esperienza. Bravo. Che dire delle contestate regia e scenografia? Per una volta non hanno dato fastidio. E questo é già un merito. Potevano evitare di impalare Filippo, Elisabetta e il grande Inquisitore (di lui non abbiamo parlato ma é stato pienamente all’altezza anche se la sua somiglianza con un bonzo lo rendeva meno credibile col feroce rappresentante di un Dio crudele) impalati in un cubo nella scena dell’Autodafè. Per il resto “Voi che le vanità” inseguite, i bisticci sui posti nel palco, le battute, intelligenti di Neri Marcorè, gli strafalcioni di Vespa-Carlucci che hanno definito il Don Carlo, scritta nel 1864, tre anni dopo l’unità d’Italia, un’opera che ricorda il risorgimento. E gli omaggi, dovuti, a Liliana Segre e gli evviva all’Italia antifascista che non erano previsti nel copione e i sorrisi di La Russa, fanno parte delle solite amenità delle prime scaligere. E riempiono i giornali che il giorno dopo devono pubblicare pagine senza avere il tempo di scrivere recensioni appropriate.

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