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Il rito di Sanremo

8 Febbraio 2024 205 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Il Festival é un grande evento nazional popolare. Come la Milano-Sanremo o il Giro d’Italia. Ci accompagna puntuale nella sua cadenza annuale dal 1951 e pare che non se ne possa fare a meno. Rappresenta i gusti e gli umori dell’Italia, trattando temi sociali, culturali, politici? Certo nel 1952 il “Vola colomba” di Nilla Pizzi, facendo riferimento a San Giusto e all’animo mesto, richiamava in qualche misura la questione di Trieste e della sua italianità sopita. E che dire di Modugno e del suo “Nel blu dipinto di blu”, che nel ritornello declamava un “Volare” nel tempo in cui le prime astronavi venivano proiettate nello spazio. Chi non ha pianto allora per la fine della cagnolina Laika e chi non ha esultato per Gagarin, il primo uomo a varcare i confini dell’ignoto? E non dimentichiamo la ragazzina Gigliola Cinquetti che nel 1964 esaltava il pudore femminile, invitando il suo amore ad attendere, subito smentita dalla seconda interprete, la francese Patricia Carli, con un “Je suis a toi”, che significava il contrario, mentre la sensuale Jula De Palma pochi anni prima era addirittura stata censurata per aver cantato, con “Tua”, una sorta di aborrito amplesso. Era l’Italia bacchettona degli anni cinquanta e primi sessanta. La rottura, che fu di un’intera generazione, avvenne col tragico 1967, segnato dal suicidio di Luigi Tenco che contrapponeva alle canzoni tradizionali la sua ballata, “Ciao amore ciao”, ispirata al tema dell’immigrazione. Eravamo già all’alba del trionfo della canzone d’autore. Si affacciavano al successo Fabrizio De Andrè coi suoi gorilla, le sue puttane e le sue Marinelle, Francesco Guccini, interpretato dai Nomadi, con un Dio che era morto, forse proprio ad Auschwitz ed era già esplosa la scuola genovese con Paoli, Bindi, Lauzi. Dal ‘68 trionfò la canzone d’autore e impegnata, con Sergio Endrigo che senza il suicidio di Tenco non avrebbe vinto mai. E le canzoni popolari, i canti di Ivan Della Mea, la prima Vanoni dei motivi della mala, il barbone di Jannacci, le torpedo e il barbera di Gaber sarebbero state appannaggio di un ristretto circolo di intellettuali. La musica dava la precedenza alle parole e queste avevano il significato di un messaggio. Il festival vacillò anche a causa di molte banalità come quella di Celentano e Mori che vinse nel 1970. Chi non lavora non fa l’amore? Il disoccupato era anche condannato all’astinenza. Gli anni settanta furono di crisi. Alcuni festival neanche vennero ripresi dalla Tv. Chi si ricorda Gilda o Vernocchi, vincitori delle rassegne del 1975 e del 1979? L’Italia, insanguinata dal terrorismo, aveva perso la voglia di cantare. Soprattutto canzonette e non testi poetici impegnati. O magari inni politici. Il festival risorse nel 1981 con Alice e la sua canzone composta da Battiato. Gli autori più raffinati non disdegnarono più la manifestazione e si ascoltarono motivi di livello assoluto come “Ancora” cantata da De Crescenzo e “Io e te nell’universo”, interpretata da Mia Martini. Anche i cantautori furono coinvolti, da Gino Paoli a Enzo Jannacci, poi, più tardi, a Roberto Vecchioni che trionfò nel 2011. Il Festival che era di canzonette si trasformò in una rassegna di canzoni. Finita era l’epoca della separazione della musica orecchiabile e banale e della musica colta. Anche i grandi artisti stranieri furono coinvolti, penso a Ray Charles nel 1990, che trasformò in una struggente melodia un pezzo di Toto Cutugno, dopo che avevano calcato il palcoscenico di Sanremo Luis Armstrong e Steeve Wonder. E poi? Da qualche anno non riesco ad afferrare il senso del Festival. I gusti sono cambiati e anche gli stili. Una canzone con due frasi e un ritornello o un inciso non viene neppure ammessa. La musica diventa solo ritmo e le parole sono spesso inafferrabili. Ogni cantante ha un suo modo di pronunciarle. Col naso, con la gola, con la testa. Escono suoni strani e un “domani” diventa un “dmani”, un “senza di te” si intende come “sentiero”.  Dunque se anche i testi fossero belli, vengono rovinati dalle emissioni generalmente gutturali degli interpreti. Ecco perché la canzone napoletana “I pé me tu pè te”, sta facendo furore. Perché cantata in partenopeo stretto si capisce come le altre. E anche perché quell’io pè te e tu pè me può diventare un inno all’egoismo, all’indifferenza, all’esibizionismo, di cui é carica la nostra società. Il festival cone rassegna di canzoni si salva con lo spettacolo, animato dai vari Amadeus e Fiorello. Certo che invitare a suon di bigliettoni della Rai, cioè di noi tutti, John Travolta per fargli danzare Il ballo del Qua Qua é molto molto azzardato.

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