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Quel che ho detto a Genova sul caso T

4 Maggio 2024 87 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Sono commosso all’idea di parlare di Enzo Tortora, qui a Genova, la città dove Enzo nacque nel 1928. Il caso esplose come un fulmine nel cielo azzurro di quell’estate del 1983. Eravamo in campagna elettorale. In me si mescolarono, alla notizia, sentimenti di stupore e curiosità. Tortora era un artista della parola. Colorava gli accenti come Sergio Zavoli. Ed entrambi si misurarono con lo sport. Il primo attraverso il suo Processo alla tappa e il secondo con la Domenica sportiva. L’arte di Tortora, aristocratica e a un tempo popolare, non verrà mai più equagliata da nessuno. Fu all’origine della televisione italiana con Telematch e raggiunse il vertice della popolarità con Portobello. E da Portobello pare nasca il complotto farsesco cui si prestò la magistratura napoletana.

Il caso T. si caratterizza per un insieme di interessata malafede dei magistrati e per una ricerca del sensazionalismo attraverso la caccia all’uomo famoso. La ciliegina sulla torta che procurava pubblicità alla retata del 1983, a quegli 856 arresti improvvisi. A mio parere i magistrati non vollero mai l’innocenza di Tortora per paura che crollasse tutto il castello. Non erano in effetti 856 gli arrestati, erano 855 più Enzo Tortora e per questo i magistrati napoletani suscitarono clamore e vasta eco pubblicitaria. Sganciando Tortora dagli 855 la retata avrebbe avuto una ben minore enfasi.
Sugli 855 poi, si verificheranno ben 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine saranno solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (con l’appello, l’impalcatura accusatoria franerà un altro po’, con 114 assoluzioni su 191). Tortora fu dunque arrestato il 17 giugno 1983  e accusato di associazione camorristica e commercio di droga.
I due suoi principali accusatori furono Giovanni Pandico e Pasquale Barra, esponenti entrambi della nuova camorra organizzata. Poi se ne aggiunsero altri, come Gianni Melluso, detto il Bello, e ritrattarono tutti. Pandico, detto O pazzo, per essere stato ricoverato in Ospedale psichiatrico giudiziario ad Aversa, si era macchiato di diversi omicidi. Aveva ammazzato anche due dipendenti comunali che tardavano a fargli avere un certificato e tentato di uccidere il padre, la madre e la sorella. Barra, detto O animale, era il principale killer della Nuova camorra organizzata che faceva capo a Raffaele Cutolo. Si era macchiato almeno di 60 omicidi, il più famoso quello in carcere di Francis Turatello del corpo del quale aveva fatto strame mangiandone addirittura il cuore.
Nel 1983 quasi tutti i mass media erano colpevolisti. Camilla Cederna su La Repubblica scrisse addirittura frasi come questa: “Se uno viene arrestato in quel modo, di notte, qualcosa avrà pur fatto”. Che sanciva la prima tendenza all’infallibilità del magistrato da parte della sinistra italiana. Solo Piero Angela e Enzo Biagi si schierarno in sua difesa. Ma giornali progressisti come Il Giorno e moderati come il Tempo sposarono la tesi colpevolista che tanto affonda la presa nell’opinione pubblica quando l’accusato é un uomo famoso. Solo i radicali di Marco Pannella furono decisamente innocentisti tanto da candidare ed eleggere Tortora parlamentare europeo, sottraendolo alla carcerazione. Elezione che fece dire al piemme Diego Marmo con una ferocia dialettica senza pari a uno dei suoi difensori: “Avvocato Dall’Ora il suo cliente é stato eletto coi voti della Camorra”.
I magistrati, contrariamente all’uso che dei pentiti fece Giovanni Falcone, non cercarono riscontri alle accuse e condannarono in primo grado Tortora a 10 anni il 17 settembre del 1985. Tortora si dimise allora dal Parlamento europeo e per lui si riaprì la porta della detenzione. Solo un anno dopo l’Appello rovesciò la sentenza e Tortora venne assolto con formula piena perché i pentiti non vennero ritenuti credibili. La sua innocenza venne confermata il 13 giugno 1987 dalla Cassazione. Tortora potè riprendere allora la sua Portobello con un “dove eravamo rimasti?”. Ma meno di un anno dopo, il 18 maggio 1988, il presentatore si spense per cancro ai polmoni, contratto durante la tragica odissea giudiziaria.
Uno a uno i collaboratori di giustizia scrissero lettere confessando di essersi inventati tutto e chiedendo perdono. L’assoluzione in Appello del giudice Morello che disse “E’ stato assolto chi doveva essere assolto e condannato chi doveva essere condannato” venne accolta da vibrate proteste da parte di chi Tortora aveva condannato e di chi aveva sposato colpevolmente l’accusa, scatenando una campagna di odio tra i magistrati.
Ulteriori particolari vennero poi alla luce, come la storia di un’agendina a disposizione dei magistrati sottratta a un camorrista dove si elencavano diversi nominativi. In questo elenco figurava il nome di Tortona con tanto di numero di telefono. Si scambiò il nome di Tortona con Tortora e quel numero di telefono non venne mai fatto. Poi emerse un particolare che potrebbe spiegare l’origine della montatura. Un certo Barbaro, anche lui camorrista in carcere, aveva inviato a Portobello dei centrini di sua fabbricazione sperando che potessero essere mostrati in tivù. Ma a Portobello i centrini di Barbaro non vennero mandati in onda e lui se la prese a tal punto da odiare il presentatore e da mettere in moto, di concerto cogli altri, che si incontravano ogni giorno in carcere, questa drammatica e farsesca messinscena

Che fine hanno fatto i magistrati che accusarono Tortora e quelli che in prima istanza lo condannarono? Il Csm non aprì mai un’indagine su di loro o se l’aprì la chiuse subito. Tutti assolti e anzi promossi. Diego Marmo venne nominato assessore a Pompei e al vertice di un ente che si occupa di legalità. L’autocritica del giudice Marmo avvenne 30 anni dopo dopo l’assoluzione. Felice Di Persia e Lucio Di Pietro non fecero mai autocritica. Anzi. Felice Di Persia, il magistrato responsabile della condanna di Tortora, venne eletto al Csm (Cossiga si rifiutò di stringergli la mano). Lucio Di Pietro venne nominato responsabile della Dda e procuratore capo a Salerno. La tortura e la morte di Enzo Tortora non hanno avuto giustizia. I veri colpevoli sono stati tutti assolti e promossi da un sistema giudiziario profondamente malato. E i cosiddetti pentiti?  Nel 2018, nel trentennale della morte del grande presentatore, Carlo Verdelli scrive su La Repubblica un eccellente articolo in cui spiega: “Pandico dal 2012 è un libero cittadino. Poi ci sono Pasquale Barra, killer dei penitenziari, 67 omicidi in carriera tra cui lo sbudellamento di Francis Turatello: è ancora dentro, ma gode di uno speciale programma di protezione. Lo stesso di Gianni Melluso, detto “il bello” o “cha cha cha”, uscito di galera e rientrato nel luglio scorso, ma per sfruttamento della prostituzione: durante i beati anni della delazione contro Tortora, usufruì di trattamenti di particolare favore, come gli incontri molto privati con Raffaella, che resterà incinta e diverrà sua moglie in un memorabile matrimonio penitenziario con lo sposo vestito Valentino”.

Anche i socialisti, con i radicali, furono al fianco di Tortora ed Enzo volle ringraziare Bettino Craxi al congresso di Rimini del 1987 per la solidarietà e il sostegno da sempre ricevuti dal Psi. Nel nome di Enzo Tortora socialisti e radicali promossero il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati giudicanti, non potendolo fare per i piemme, e lo vinsero. La successiva legge Vassalli svuotò il significato di quel quesito introducendo la responsabilità indiretta. A pagare il prezzo dell’errore giudiziario doveva essere lo stato e non il magistrato. I radicali, giustamente, si opposero. E i socialisti ferendo e non  ammazzando i magistrati politicizzati e in mala fede ne pagheranno il fio più tardi.
Non esiste una sinistra. Ne esistono due. Quella illiberale e giustizialista che si fa comandare dall’Anm, e quella liberale e garantista che intende riformare la giustizia nel segno dell’autonomia e dei cardini di una moderna democrazia europea. Questa divisione delle sinistre ha causato la mancanza di un programma unico sul tema della giustizia, e anzi ha determinato due opposti atteggiamenti nei confronti del progetto di riforma del ministro Nordio, che giace da un po troppo tempo nei cassetti polverosi di via Arenula. La stretta alleanza, anzi la subalternità della sinistra “reale” nei confronti dell’Anm si staglia da principio nella fase di Tangentopoli. Si tratta di un abbraccio produttivo e di quasi completa esenzione del Pds da indagini e condanne. Poi doveva esserci un ristorno. Da trent’anni il Pds, Ds, Pd é a fianco dei magistrati e contrario a qualsiasi riforma radicale del sistema giudiziario così come i Cinque stelle, che addirittura sono più realisti del re. Ma c’é un’altra sinistra, quella liberale, radicale, socialista, quella di Azione, Piu Europa, Italia viva che della separazione delle carriere, della riforma dell’elezione del Csm, della nuova e più stretta definizione delle norme del carcere preventivo, hanno fatto una ragione di identità. La divisione esiste tuttora. Basti pensare che ai referendum di qualche anno orsono, promossi congiuntamente da socialisti, radicali e leghisti Enrico Letta, allora segretario del Pd, fu costretto a scegliere la posizione secca dei “tutti no”.
La Schlein, in un recente incontro con Emma Bonino, ha ricordato le battaglia che insieme a lei faceva suo nonno. Un momento. Il nonno della Schlein era il senatore socialista Agostino Viviani, un garantista della prima ora, uno che sposò il progetto della separazione delle carriere e la lotta per una giustizia giusta, e che entrò al Csm su indicazione di Forza Italia. E’ vero che i figli non possono ereditare le scelte politiche dei padri. Figurarsi i nipoti. Ma questi ultimi non possono travisarle. Ammesso che le conoscano.

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