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Intervento sul decreto “Bersani-Visco”

Il decreto definito “delle liberalizzazioni” è in realtà un provvedimento che poggia su tre questioni riassunte in altrettanti titoli: solo il primo riguarda alcune decisioni in materia di semplificazione e di maggiore concorrenza in alcuni settori della vita professionale. Gli altri due “titoli” del decreto legge sono relativi a tagli di spesa e alla lotta all’evasione fiscale. Per questo il decreto, prima definito “Bersani”, ha assunto la duplice denominazione di “Bersani- Visco”.
Se parliamo di liberalizzazioni in termini filosofici allora non possiamo che convenire sulla loro necessità in una società, quella italiana, ancora troppo dominata, ce lo ha così spesso ricordato Francesco Giavazzi nei suoi pregevoli editoriali sul Corriere, di lacci, laccioli, vincoli, proibizioni. Uno Stato moderno non può accettare l’esistenza di corporazioni e settori protetti i cui interessi confliggono in molti casi con l’interesse generale. Così come non si può che convenire con l’idea di porre al centro di tutto il cittadino consumatore, soprattutto oggi, in una situazione nella quale egli appare quasi sempre penalizzato e addirittura paralizzato. Penalizzato per la mancata conoscenza, come spesso accade nel rapporto con gli istituto di credito, che consigliano al risparmiatore investimenti a volte sbagliati, mandandolo in rovina, senza poi pagarne alcuna conseguenza. Paralizzato proprio dalla mancata concorrenza, che porta ad una definizione dei prezzi di esclusiva competenza del soggetto monopolizzatore del mercato. Il tema è squisitamente liberale e che venga posto da un governo con un forte potere condizionante dell’estrema sinistra non può che sorprendere. Così come non può che dispiacere che esso non sia stato affrontato nel modo dovuto dal passato governo di forte impronta liberale. Aggiungiamo che condanniamo nel modo più deciso tutte le intimidazioni e le violenze, che sono state prodotte da gruppi di cittadini nei confronti di personalità quali Giavazzi, Iachino, lo stesso Mussi. La protesta non può mai sconfinare nella aggressione verbale o addirittura fisica. Non è con l’aggressione che possono essere affermate delle ragioni, quando ci sono.
Bisogna però passare dalla filosofia, cioè dall’impostazione generale assolutamente condivisibile, ai fatti concreti, per capire quanto ci sia di autenticamente liberale nel provvedimento del governo, per comprendere se, dalle idee giuste, si sia passati a disposizioni altrettanto giuste e inequivocabilmente coerenti con le premesse. E allora non si possono non evidenziare, in questo provvedimento, una serie di contraddizioni, di risposte sbagliate e di mancate risposte che, per quanto ci riguarda, intendiamo riprendere e commentare.
La prima questione è relativa proprio allo strumento del decreto. Tale provvedimento “di necessità e di urgenza”, si inserisce a metà strada tra il Dpef e la Finanziaria. In qualche misura dovrebbe stare dentro le previsioni del Dpef e anticipare le scelte della Finanziaria. Non sarebbe stato meglio che il governo fosse venuto in Parlamento e avesse sottoposto alle due Camere la sua strategia di politica economica e finanziaria? Bisogna trovare oltre 30 miliardi di euro e nel contempo risanare corroborando lo sviluppo e producendo maggiore equità? Ecco la nostra ricetta, si sarebbe potuto dire, e voi come la pensate? Non sarebbe stato più aderente alle idee che la sinistra ha sempre avuto della programmazione, una scelta che sancisse con chiarezza l’orizzonte all’interno del quale si collocano poi i vari provvedimenti? Certo il governo non vive una stagione facile. Non è mistero per nessuno che l’esponente di governo di Rifondazione comunista non abbia partecipato al voto sui provvedimenti economici dell’esecutivo e che l’economia si annunci oggi come l’ennesima trincea di lotta alla quale i partiti di governo ci hanno ormai abituato. Una sorta di nuovo Afganisthan o di nuovo indulto. Ed è evidente che il ricorso alla fiducia sia divenuta ormai una scelta di governo obbligata, a causa di una maggioranza risicata, soprattutto al Senato, e sempre più litigiosa.
Porto sulle spalle due legislature nell’ultimo periodo della “cosiddetta” prima Repubblica, cosiddetta perchè ancora non vedo la seconda, e ricordo bene le critiche che dai banchi del Pci, poi Pds, venivano rivolte ai governi di pentapartito: “Non si può governare l’Italia a colpi di decreti e di fiducie, non si possono espropriare i diritti del Parlamento”. Come si vede spesso le critiche si ritorcono contro chi le rivolge. E i principi si piegano alla logica dello stato di necessità. La memoria, d’altronde, non è una prerogativa di questa classe dirigente. E cambiare opinione è divenuta una virtù. Così, ogni volta, dopo ogni litigio, si comunica che bisogna metterci una pietra sopra. Una stretta di mano e via, verso un nuovo litigio. Per poi sottolineare, lo ha fatto recentemente lo stesso Fassino, che il governo deve essere allargato e che da solo non ce la fa. E per quanto riguarda la volontà liberalizzatrice del ministro Bersani, consiglio di dare uno sguardo alla nostra Emilia-Romagna, dove esiste un mercato monopolistico. Ad una egemonia politica di un partito, e oggi di uno schieramento, si giustappone una egemonia di un solo soggetto economico, quello cooperativo, sia nel settore della produzione e lavoro, sia in quello del consumo. Cerchi Bersani di conciliare questa sua vocazione culturale con la realtà della sua e mia regione.
Ma c’è un punto del decreto, diciamo così più di merito, che non possiamo sottacere. Il decreto è stato sottoposto da una serie di consultazioni postume. Strano metodo di affrontare i problemi, signor ministro. E guardi che noi non siamo mai stati, contrariamente a molti di voi, per la concertazione. Il governo e il Parlamento devono prendere le decisioni legislative. Non altri. Ma siamo sempre stati per le consultazioni. Ora che le consultazioni vengano effettuate dopo l’emanazione del decreto e portino ad uno forte cambiamento del testo originario, tanto che il Senato ha approvato un provvedimento assai diverso da quello emanato dal governo, questo ci stupisce e ci preoccupa. Tanto che ci sentiamo in dovere di chiedere al governo perché non ha accompagnato il decreto modificato con una nuova relazione tecnica, solo per sapere, signor ministro, se le maggiori entrate previste dal primo testo sono identiche alle maggiori entrate conteggiate nel secondo e che dovrebbero portare ad uno 0,5% di Pil, come previsto dal Dpef recentemente approvato.
Una seconda osservazione di merito riguarda le scelte di inclusione e quelle di esclusione dal provvedimento motivato da “necessità ed urgenza”. Stupisce, quando si parla di liberalizzazione, che si includano alcune professioni (taxisti, farmacisti, avvocati) e si escludano invece le vere materie attorno alle quali è assolutamente necessario promuovere un mercato pluralistico. Parlo in particolare dell’energia e del mercato monopolistico a cui è sottoposto il cittadino e al quale devono soggiacere anche le imprese. Si è scelto per l’energia un disegno di legge e non la forma del decreto. Perché? Domanda che rinviamo al governo. La questione dell’energia è davvero di rilievo. Solo introducendo maggiore pluralismo di soggetti interessati si possono ridurre i costi in una materia che, se si escludono le famiglie per ciò che riguarda l’energia elettrica, ma dal 2007 verrà esteso questo diritto anche a loro, è già liberalizzata per legge. Il problema è quello di costruire un mercato non monopolistico, gestito oggi da Eni, da Enel e dalle multi-utility intercomunali nel territorio periferico. Questo per ridurre i costi energetici anche alle piccole e medie imprese, che rappresentano il 95% del tessuto imprenditoriale italiano. Dunque si tratta di un manovra assai indicata per agevolare lo sviluppo, obiettivo strategico, a nostro giudizio, anche per combattere il disavanzo. Nel primo semestre del 2006 l’Eni ha chiuso con un guadagno di 5 miliardi di euro, che gran parte finiscono nelle casse dello Stato. Possibile che nessuno abbia pensato di approvare sgravi fiscali per le imprese italiane che tanto versano in quel modo allo Stato? Nel settore energetico non si può evitare di porsi il problema del risparmio. Ci sono oggi soggetti importanti, ma quasi tutti stranieri, che stanno lavorando con successo in questo campo, e riescono ad ottenere risparmi, ad esempio nel settore della energia elettrica, pari a quasi il trenta per cento dei costi attuali. Non è utile che venga agevolato anche in Italia questo settore e che possa portare ad una maggiore presenza del nostro Paese, oggi praticamente escluso, in una materia strategica per aiutare le imprese italiane in termini di contenimento di costi ?
Certo non si dovrebbe solo affrontare il problema dell’energia. E’ giusto porre attenzione al settore del trasporto pubblico. Nel decreto non si parla solo dei tassisti. Si include il problema dei tassisti nel tema più generale della mobilità urbana, oggi di esclusiva competenza comunale. Anche in questo settore una maggiore concorrenza non potrebbe che aumentare i servizi, in termini di quantità e di qualità, e nel contempo contenere i prezzi per gli utenti. Su questo siamo perfettamente d’accordo e non in dissenso come l’on. Ricci di Rifondazione comunista. E perché non affrontare anche il tema del monopolio statale del servizio ferroviario, tema che tanto stette a cuore ai socialisti all’inizio del secolo, ma che all’inizio di un altro secolo potrebbe essere diversamente impostato tenendo presente non tanto la forma di gestione ma i servizi da prestare al cittadino?
Tornando all’energia, è vero che il vecchio governo Prodi ha consentito la liberalizzazione dell’energia elettrica. Ma è anche vero che un provvedimento al di fuori del contesto europeo, ha consentito allo Stato francese di divenire, con l’acquisizione di Edison, il secondo produttore, dopo Enel, di energia elettrica in Italia, attraverso la società statale “Electricitè de France”. Dunque attenzione a misurare il processo di liberalizzazione con le norme degli altri Paesi europei e con quelle comunitarie.
Terza osservazione. Leggo quest’oggi che il presidente della commissione attività produttive della Camera, l’amico Daniele Capezzone, propone una legge bipartisan per ridurre drasticamente i tempi e le norme per la creazione di nuove imprese. Si tratta di una proposta giusta, che condivido. Ma questa proposta rientra nella strategia del governo? Perché, se vi rientra, non è stata inserita nel decreto, che aveva appunto lo sbandierato obiettivo, di liberalizzare e di semplificare? E se la proposta di legge bipartisan di Capezzzone è giusta anche metodologicamente perchè il governo si intestardisce con i decreti e le chiusure a riccio? Che diventano perfino più forti nei confronti delle opposizioni, soggette ormai solo a voti di fiducia, di quanto non lo siano state nei confronti dei taxisti romani, che pure non hanno mancato di assumere toni eccessivi nella loro pur legittima protesta. Insomma si preferisce, caro Capezzone, blindare una maggioranza che ormai non c’è più, con decreti, decreti bis e fiducie, piuttosto che aprire un vero e proprio confronto con la minoranza, come invece tu fai con la proposta di una legge bipartisan.
Quarta osservazione. Alcuni punti fondamentali del vecchio decreto sono stati cambiati, dopo alcuni confronti con le categorie. Ne vorrei ricordare due in particolare, anche per capire da dove si muovessero le risposte originarie, e quale obiettivo volessero cogliere. Cito la questione del cumulo delle licenze dei tassisti e la questione della retroattività della tassazione delle transazioni immobiliari. La prima scelta, a giudizio del ministro Bersani, era dovuta alla necessità di aumentare il numero dei taxi. Giusta preoccupazione, certo non una delle prime che dovrebbero animare un ministro alle prese con ben altri problemi ed emergenze. Ma restiamo al tema. Come non accorgersi, come è stato poi ammesso, che questa nuova misura avrebbe determinato la nascita di società e di cooperative e la trasformazione del taxista da lavoratore autonomo a lavoratore dipendente? Che c’entra questo con le liberalizzazioni? Sarebbe stata una sorta di liberalizzazione all’incontrario. Dal lavoro autonomo al lavoro subordinato. Nulla di male. Ma allora questo doveva essere l’obiettivo dichiarato. Non certo quello di aumentare il numero di taxi soprattutto nelle grandi città. Problema che poi era già stato risolto dai sindaci di alcune grandi città italiane con nuovi bandi. Adesso il cumulo è stato cancellato e si è ammesso che bastava una diversa organizzazione dei turni, nuovi bandi straordinari, la concessione dell’uso della macchina ad un famigliare, la copertura di periodi legati ad eventi, tariffe concordate con percorsi predefiniti. Insomma, si è puntato allo stesso obiettivo, facendo clamorosamente retromarcia sul cumulo, che pareva una vera e propria trincea di guerra. E che aveva indotto il popolo dei tassisti a clamorose proteste, comprese quelle delle sciopero, che ha mandato in tilt intere città. Non si poteva prevedere tutto questo? Era proprio inevitabile dichiarare questa guerra di civiltà per poi finire a fumare il calumè della pace coi ribelli in festa per una vittoria? Mah…L’altra questione, per certi versi anche più grave, riguarda la retroattività di una misura fiscale prevista nel settore immobiliare. Qui siamo veramente alla mancanza di rispetto per i diritti dei cittadini. Ma come si poteva accettare l’idea che dopo aver pagato una cifra, anni dopo, coloro che avevano stipulato un contratto di acquisto di un immobile dovessero poi pagare una cifra diversa e superiore? Ma quando mai questo è avvenuto in Italia? Quando mai è stato stabilito il principio della retroattività di una misura fiscale? Credo che siamo davvero ai limiti della Costituzione. Sarebbe come se un risparmiatore che ha stipulato un contratto per l’acquisto di titoli di Stato, venisse a conoscenza che quel contratto è stato cambiato cammin facendo. Ma quando mai ne sottoscriverebbe un altro? Dunque questa misura non poteva non essere mutata, come è puntualmente avvenuto, stralciando il criterio della retroattività. Ma ugualmente rivolgo una domanda al ministro dell’Economia, che nel suo Dpef prevede una crescita nei prossimi cinque anni di solo l’1,5, crescita largamente insufficiente per risanare i conti italiani, a meno che non si applichi ancora la strategia dei due tempi, prima il risanamento e poi lo sviluppo, che sarebbe insopportabile e controproducente. Gli chiedo: si è trattato di un errore marchiano o di una sua propensione politica?. Il primo può essere perdonato, la seconda no. Se si voleva mettere in ginocchio tutto il mercato immobiliare italiano, con quella misura certo ci si riusciva perfettamente.
Quinta osservazione. Parlo delle misure fiscali previste per ciò che riguarda i controlli degli esercenti e professionisti. Scrive Francesco Forte ieri su Libero: “Fra le lobbies che devono dire grazie al decreto Bersani- Visco c’è anche e non poteva mancare quella delle banche. Infatti, in base al decreto, tutti i cittadini italiani, anzi tutti i residenti in Italia, anche minorenni, dovranno avere un conto corrente bancario o una carta di credito o un bancomat. E tutti gli esercenti di arti e professioni, dai medici ai falegnami, ai callisti, dovranno dotarsi non solo di un proprio conto corrente bancario, cosa che generalmente già hanno, ma anche di una macchinetta per il bancomat e di una per le carte di credito, collegata alla banca di fiducia. Milioni e milioni di nuovi clienti in un colpo solo, grazie all’articolo 19 del decreto Bersani-Visco”. Diciamo la verità. Non siamo così stolti da pensare che in queste categorie non si incunei un alto tasso di evasione fiscale. Dunque è assolutamente doveroso tentare nuove strade per combatterla. Dubitiamo che queste siano le misure più giuste per fare in modo che l’evasione venga contenuta. Intanto perchè succederà quel che succede adesso. E cioè che molti esercenti si faranno pagare in nero, senza corrispondere la ricevuta o la fattura. E questo non c’è macchinetta da bancomat che possa sostituirlo. Secondo, perché se il cliente pretenderà la ricevuta potrà aumentare il prezzo, come del resto succede anche adesso per certi servizi. E il cliente risponderà che per quanto lo riguarda preferisce una prestazione a basso costo. Il problema della lotta all’evasione fiscale di queste categorie è la messa in conflitto degli interessi. Se ne parla da un po’. Ma se esiste una convergenza di interessi tra chi fornisce il prodotto o la prestazione e il cliente, non c’è nulla da fare Allora cominciamo a stabilire forme di parziale defiscalizzazione delle spese per i dentisti o per gli avvocati, ad esempio, e state pur certi che saranno i clienti a pretendere l’esatta ricevuta della spesa corrisposta. Il conflitto degli interessi nel mercato moderno è un forma di controllo efficace e per molti versi risolutiva. Forse l’unica. La consigliamo più delle macchinette del bancomat a chi però dimostra di avere una concezione un po’ troppo ragionieristica dei conti pubblici.
Sesta e ultima osservazione. Nel programma dell’Unione si dà gran spazio alla ricerca e alla formazione universitaria. Si rivolgono critiche al passato governo. Lo si accusa di aver speso troppo poco, anzi di aver tagliato la spesa, o quanto meni di non averla aumentata. Ebbene che fa il nuovo governo, suscitando le ire e la minaccia di dimissioni del ministro Mussi? Taglia la spesa per l’Università e la ricerca. Infatti il taglio del 10% circa delle spese esclude una serie di istituti tra i quali le Asl, gli ospedali, gli istituti zoo-profilattici, ma non le Università e il Cnr, con i sui derivati. E pensare che i rettori delle Università minacciarono di dimettersi quasi in blocco per un mancato aumento della spesa. E oggi, a fronte di una sua diminuzione, se ne stanno così quieti. Non conosco tutte le logiche di inclusione e di esclusione dal taglio. Posso solo amaramente commentare che le Università e il Cnr imponevano almeno lo stesso trattamento riservato agli istituti zoo-profilattici.
E a proposito della ricerca mi si premetta un’ulteriore domanda.
Dove sono finiti i contributi in conto interessi pari a 1, 800 milioni di euro, capaci di sviluppare dunque mutui per decine e decine di miliardi di euro, per i quali già era stato emanato un bando e al quale avevano inviato progetti oltre un centinaio di imprese? Se davvero il decreto sancisce l’opportunità di cambiare le commissioni di esame, non rischiano queste risorse di sparire o di essere elargite alle calende greche?
Con questi considerazioni in parte favorevoli, con queste osservazioni critiche e proposte alternative, noi procederemo in un atteggiamento certo non distruttivo, ma laicamente disponibile ad entrare nel merito dei vari provvedimenti. Con una sola preventiva eccezione. L’abuso dei decreti e del voto di fiducia. Questi strumenti non facilitano i confronti, ma li immiseriscono negandone in partenza qualsiasi efficacia. Il nostro Paese attende risposte chiare sui temi oggetto di decreto. Credo che abbia il diritto di capire se esiste una maggioranza in grado di garantirle.