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Cesare Battisti cent’anni dopo. Perché a Reggio hanno tolto il suo nome dalla piazza?

26 Febbraio 2016 2.335 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Un martire socialista dimenticato

Battisti visse da socialista e morì da patriota. Eppure non è mai stato ricordato ed esaltato a dovere né dal Psi né dagli italiani. Non è mai stato fascista, essendo morto nel luglio del 1916. Sua moglie, Ernesta Bittanti, fu anzi orgogliosamente antifascista. Amica e compagna di Gaetano Salvemini, firmò un coraggioso appello dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti e si rifiutò di consegnare le medaglie del marito a Mussolini. I suoi tre figli, Camillo, Livia e Luigi, soprattutto quest’ultimo, combatterono contro il fascismo e durante la resistenza. Luigi fu anche il primo sindaco di Trento e deputato alla Costituente per il Psiup, poi tragicamente scomparve nel dicembre del 1946. Cesare Battisti fu un irredentista trentino e combatté contro l’impero austroungarico nella prima guerra mondiale Questa la sua colpa? Che dire allora dello stesso Salvemini, di Leonida Bissolati, di Sandro Pertini, e anche del repubblicano Pietro Nenni che si arruolarono volontari per combattere in nome dell’interventismo democratico? Ma nel velo della dimenticanza, oggi in parte penetrata grazie al ben libro di Paolo Brogi, “Impiccateli. Le storie eroiche di Cesare Battisti e Nazario Sauro a cento anni dalla morte”, pesa anche una tragica pagina tutta reggiana su cui tornerò. Battisti nacque a Trento nel 1875, quando il Trentino tutto era sotto il dominio austriaco, sulla base delle spartizioni avvenute col Congresso di Vienna del 1815. Eppure tutta la valle media dell’Adige aveva lingua e cultura italiane. Tanto che, quando esplose il quarantotto europeo, anche a Trento vennero promosse manifestazioni che inneggiavano all’Italia e al presunto vento nuovo di Pio IX. Cesare aveva preso lo stesso nome del padre, che era un commerciante, mentre la madre, la nobildonna Maria Teresa Fogolari, era sorella di don Luigi, un patriota che morì di stenti nelle carceri austriache. L’irredentismo di Battisti aveva dunque anche una radice familiare. Cesare frequentò il Ginnasio e il Liceo a Trento, poi si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza a Graz, dove si imbatté per la prima volta in un gruppo di giovani marxisti che frequentò e dal quale fu indubbiamente influenzato. Per un corso di laurea in materie letterarie fu per la prima volta in Italia e nel 1894 soggiornò a Firenze, dove si s imbatté nel gruppo dei socialisti più inquieti raccolti attorno a Salvemini e ai due Mondolfo (Rodolfo e Ugo Guido), ma fu anche a Torino, dove il socialismo respirava l’influenza romantica e sentimentale di Edmondo De Amicis. E’ a Firenze che Cesare conosce e si fidanza con Ernesta Bittanti,che diverrà sua moglie e che gli darà tre figli. Cesare si innamora della geografia e si laurea in questa materia nel 1898, quando a Milano rimbombano i cannoni di Bava Beccaris che lasciano sul selciato il sangue di decine di protestanti che invocano il pane, ma che costituisce un elemento di svolta, dopo i governi Rudinì e Pelloux, verso il nuovo equilibrio democratico dei governi del primo Novecento. Dopo la laurea Cesare torna definitivamente nel suo Trentino e da questo momento la sua vita è divisa tra l’attività professionale di geografo e quella politica di dirigente e di giornalista socialista. Egli pubblica la guida di Trento e il volume Il Trentino. Si pone alla testa del movimento socialista trentino, divenendone segretario. Nel 1895 già aveva fondato, nel corso dei suoi frequenti ritorni nella sua città, alternate ai viaggi in Italia, la Rivista popolare trentina, che al primo numero era già stata censurata e ritirata dalle edicole. Nello stesso anno esce l’Avvenire come giornale dei socialisti trentini, trasformato poi nell’Avvenire del lavoratore, che Battisti dirige ininterrottamente dal 1899 al 1905. In questo periodo le autorità, rendendosi conto dell’intelligenza e della creatività del giovane, gli propongono un contratto di 1800 fiorini per un posto da giornalista purché egli rifiutasse la sua identità di socialista. Cesare si oppone sdegnosamente. Anzi, si mette a organizzare la lista elettorale in vista delle votazioni al Parlamento di Vienna, prima del 1897 e poi anche quelle nelle votazioni seguenti. Solo alle elezioni del 1907 verrà eletto un socialista nella persona di Augusto Avancini. In tutte quelle precedenti il Partito socialista era stato superato dai popolari e dai liberalnazionalisti. Il lavoro di educatore e di comunicatore di Battisti si accresce di una nuova esperienza nel 1900 quando egli fonda il nuovo giornale “Il Popolo”. Lo fa coi soldi suoi, formando anche una casa editrice. Nel 1902 viene eletto consigliere comunale di Trento e inizia la sua lotta per l’Università  italiana, che doveva essere tenuta a battesimo a Innsbruck, ma che viene contestata dai nazionalisti austriaci tanto che le aggressioni contro gli italiani divengono le più odiose e procurano anche un morto e decine di feriti. Anche Battisti viene incarcerato a seguito di quei drammatici incidenti. Il progetto dell’università viene così spostato su Trieste. E sempre rinviato fino a al momento della sua inaugurazione fissata per il 1914 quando il rombo della guerra sarà ormai imminente e lo renderà impossibile. Battisti col suo giornale “Il Popolo” agita, insieme, la questione sociale e quella nazionale. Immagina un progetto di adesione del Trentino italiano all’Italia. Avverte, oltretutto, che la monarchia asburgica è la negazione della libertà e del progresso. L’impero austroungarico e la Prussia rappresentano anzi il pericolo maggiore per l’Europa tutta. Nel 1909 Il Popolo ospita articoli di Benito Mussolini, il giovane maestro che, dopo la breve esperienza di Gualtieri, aveva preso la via del Trentino dove ricopre l’incarico di segretario della Camera del lavoro di Trento. Alle elezioni del 1911Cesare Battisti sostituisce Avancini e viene eletto deputato socialista al Parlamento di Vienna. E’ anche deputato alla Dieta di Innsbruck. Prima dell’esplosione del conflitto Battisti è contro la guerra. Si concentra sulla difesa dei lavoratori del Trentino, ma sulla questione nazionale Battisti teme la forza e l’autorità austriache. E’ anche pacifista per scelta umanitaria. Teme un bagno di sangue. Non è un utopista. Anche nel partito socialista sostiene le tesi riformiste e non rivoluzionarie. Propone riforme e soluzioni concrete. Poi, all’esplosione del conflitto, quando l’Austria, dopo l’attentato di Sarajevo, dichiara guerra alla Serbia e le alleanze politico-militari sono obbligate a schierarsi, Battisti si convince che è il momento di agire. Scrive anche una lettera al re d’Italia implorandolo di muovere guerra all’Austria. Si muove. Varca i confini e approda in Italia, dove tiene, tra la fine del 1914 e la primavera del 1915, un mare di conferenze e comizi a favore dell’intervento a favore dell’Intesa. L’Italia vacilla. Tra l’Alleanza e l’Intesa, tra la guerra e la pace. Il Psi era lacerato da tendenze rivoluzionarie che vedevano il neutralismo come dogma internazionalista, e un più timido “né aderire né sabotare”,  coniato dal vecchio Costantino Lazzari. E che Turati volle commentare così: “Non aderire è anche un po’ un sabotare e non sabotare è anche un po’ un aderire”. Ma anche nel Psi non furono pochi gli interventisti sulla base della consapevolezza che gli imperi centrali fossero un obiettivo da colpire per l’indipendenza e il progresso degli stati europei. I figli di Ricciotti Garibaldi, Bruno e Costante, influenzati da suggestioni risorgimentali, sono tra i primi ad arruolarsi per combattere assieme ai francesi e cadono entrambi nella Argonne nel dicembre del 1914. Anche Turati si convince della necessità di difendere il suolo patrio, dopo la rotta di Caporetto. E sarà per la sua decisa pronuncia a favore della difesa in armi dell’Italia,quando gli austriaci si riteneva potessero arrivare fino alle porte di Milano, anche politicamente processato dalla maggioranza rivoluzionaria del congresso del Psi del 1918. Battisti in Italia trova un mare di tendenze. Interventisti di destra e di sinistra, neutralisti di opposta tendenza, pacifisti umanitari, e anche filo tedeschi, favorevoli al mantenimento dell’Italia al fianco dell’Austria e della Prussia. E Battisti il 25 febbraio del1915, esattamente cento anni fa, arriva a Reggio, per tenere una conferenza al teatro Politeama Ariosto.

La tragedia di Reggio Emilia

Quella sera gelida di giovedì 25 di febbraio c’era la neve raccolta a mucchi ai lati della strada. E al Politeama Ariosto era fissata la conferenza di Cesare Battisti, l’eroe trentino dell’interventismo che incitava l’Italia a scendere in guerra contro l’Austria. Tutta la Reggio Emilia interventista era stata invitata alla conferenza, autorizzata dal prefetto solo come riunione privata, con ospiti ammessi esibendo regolare biglietto d’invito. Gli onori di casa erano a carico di Umberto Lari, il giornalista liberale che aveva collaborato alla redazione de “Il Corriere di Reggio” e che a dicembre era stato promotore, assieme a Sandro Cucchi e a Vincenzo Belluzzi, di una Associazione radicale patriottica, che aveva promosso una manifestazione per celebrare Guglielmo Oberdan, mentre Salandra parlava di un’Italia pronta a ogni evenienza. I socialisti, attraverso le due Giustizie, quella quotidiana diretta da Zibordi e quella domenicale diretta da Prampolini, avevano raccomandato la calma e invitato a disinteressarsi della conferenza. Invece una gran massa di persone s’era radunata in via Cairoli e di fronte al teatro. Nel gelo che provocava parole trasformate in fiato in una notte in cui era facile disubbidire, si stagliavano fantasmi di giovani contadini e operai che premevano sul cordone delle forze dell’ordine schierate a protezione dell’ingresso al teatro, come se lì dentro si dovesse decidere il loro destino. Il giorno prima, a Scandiano, s’erano verificati scontri gravi tra manifestanti e polizia e un dimostrante era stato ricoverato in gravissime condizioni all’ospedale e vi morirà il 19 aprile. Si chiamava Aristide Rinaldi. La notizia aveva eccitato ancor più gli animi. Qualcuno mormorava: “Se dobbiamo morire, tanto vale morire stasera”. Arrivarono Bruto Monducci, segretario della federazione socialista del collegio di Reggio, Manlio Bonaccioli, segretario provinciale del partito e Giovanni Zibordi, trafelati. Zibordi improvvisa un comizio ergendosi su un mucchio di neve per convincere i presenti a star calmi. Poi si sposta verso i giardini e sale su una panchina del parco per spostare la massa verso di lui. Ma la folla ristagna dinnanzi al teatro e preme forte sui carabinieri. Volano i primi sassi, s’odono squilli di tromba, fischi e le reazioni più varie, mentre gli invitati arrivano al teatro incappucciati e spaventati tre due ali di folla. Dinnanzi all’ingresso la forza dell’ordine è in stato di guerra. Un carabiniere dicono sia stato ferito. Arriva il sindaco Luigi Roversi e a piedi attraversa i portici della Trinità. Vuole convincere la gente a tornare indietro, ma viene bloccato dal maggiore dei carabinieri che gli consiglia di recedere e lui non sente ragioni. Si vedono sassi volare. Poi “un crepitio maledetto dei colpi, sparato in direzione del museo”. La folla sbanda, è un fuggi fuggi generale, i colpi si susseguono numerosi. Alcuni dimostranti cadono raggiunti dai proiettili quasi tutti alla schiena. Uno di loro, il venticinquenne Mario Baricchi, viene raccolto senza vita, un altro, il quindicenne Fermo Angioletti, è in condizioni disperate e morirà il giorno dopo all’ospedale di Reggio. Altri due, il quindicenne Enrico Fontanesi e il diciottenne Giuseppe Sacchetti, sono feriti gravemente, ma se la caveranno. Altri ancora verranno ricoverati solo con ferite marginali. La mattina dopo Reggio ha un sussulto. Piazza Grande è densa di lavoratori, i negozi sono chiusi. A Roma Prampolini, avvisato per telegramma la sera stessa, rivolge subito un’interpellanza al presidente Salandra. E chiede di conoscere la versione del governo e di intervenire con un’indagine per colpire le responsabilità del tragico accaduto. A Reggio, in piazza, parlano ai convenuti il sindaco Roversi che “esprime dolore, sdegno e pietà” e Giovanni Zibordi, che riepiloga i fatti. E senza mezze misure sottolinea anche le responsabilità dei manifestanti, dichiarando: “Questa propaganda di violenza che esalta la lotta feroce, che inneggia alla forza sopra al diritto, questa propaganda parlava ieri sera nel cuore di quei giovani che dicevano: “Noi qui siamo i più forti, dobbiamo impedire agli altri di fare il comizio”. Io dicevo: “Ciò non è da socialisti. Socialismo è libertà, è civiltà, non soprafazione”. Il giorno dopo, il 27 giugno, è lo stesso Prampolini, nel frattempo ritornato a Reggio, che riprende il cuore del ragionamento di Zibordi e parla in una piazza Grande nereggiante di folla. Il suo fu un discorso davvero sorprendente. “Sono 33 anni”, esordì il leader socialista, “che combattiamo insieme per il trionfo di un nostro alto, luminoso ideale di benessere e di civiltà e in questo lungo periodo di battaglie mai ci trovammo di fronte a qualcosa che lontanamente somigliasse alla tragedia che noi piangiamo”. Ma seguitò prendendo posizione sia contro le forze dell’ordine sia contro i manifestanti. Volle cioè sottolineare le responsabilità anche dei suoi, anzi forse proprio queste ultime egli intese soprattutto mettere in evidenza, sentendosi in qualche misura responsabile degli atti compiuti, per quella sua antica funzione di educatore che in questo caso aveva fallito l’opera. E disse: “Chiunque sia il colpevole, o di parte nostra, o di appartenenti alla forza pubblica, il fatto doloroso che noi deploriamo ha un’eguale origine, un’eguale sorgente: l’inciviltà dell’animo che determina l’operaio a lanciare le sassate, come il colpo di fucile o di rivoltella del carabiniere o della guardia. In queste due anime c’è ancora l’inciviltà, la barbarie che noi dobbiamo sradicare”. Prampolini pone ancora la questione dell’educazione delle masse, che non possono far conto sugli istinti primitivi. Occhio per occhio, come per Gandhi, si diventa ciechi. E insiste: “E’ incivile il sentimento di vendetta. Tale sentimento è proprio dei barbari e dei selvaggi (…). Amiamo la libertà e sia libertà per tutti. Amiamo la vita e quindi non provochiamo ed allontaniamo quanto possa offendere o distruggere l’esistenza umana (..). Siate calmi, lavoratori, e non pensate e non temete che la calma possa essere sospettata come viltà: calma significa ragionevolezza, vuol dire non lasciarsi guidare dai maledetti impulsi. Tutto ciò che ci spinge alla violenza (altra cosa e ben diversa è la difesa) e alla prepotenza è ancora quel maledetto istinto che, associato alla rapina, ha spinto le nazioni all’attuale spaventosa guerra”. E infine un messaggio dichiaratamente evangelico e quasi prodromo di un futuro analogo messaggio papale: “Tornate alle vostre case e dite alle vostre donne e ai vostri fanciulli che se l’ideale socialista non ha ancora potuto diventare realtà, lo diverrà invece se voi, lavoratori, saprete giorno per giorno tenere fisso l’occhio alla meta e migliorarvi e redimervi”. La redenzione dell’animo a fronte di un eccidio? Eppure la predicazione di Prampolini raggiunge qui il vertice della coerenza, la sua compiutezza. La violenza come arma legittima solo in caso di difesa, la massa che deve reprimere i suoi istinti bestiali, e deve dedicare l’animo alla libertà, al rispetto di tutti, la negazione della vendetta, l’esaltazione morale della calma, che è ragionevolezza, e addirittura il socialismo come redenzione dell’animo, il tutto a conclusione di una manifestazione di protesta per la morte di due lavoratori per mano della forza pubblica, non può non destare forte impressione. Mussolini definì sul suo giornale Prampolini “Il nostro buon Gesù”, e sottolineò che dinnanzi a tragedie simili “ci vuol altro che predicare la calma” (127). Nella storia futura della nostra città ben altro sarà l’atteggiamento dei partiti e dei leader politici della sinistra a fronte di vicende più o meno analoghe.

Il martirio

Il 24 maggio del 1915 l’Italia dichiara guerra all’Austria. Cinque giorni dopo, il 29 maggio, Battisti si arruola volontario nel Quinto reggimento alpini di stanza a Milano.Vuole essere soldato semplice. Lo mandano a Edolo, in un campo di addestramento e poi lo inquadrano nel Plotone volontario alpini. Viene inviato in Valcamonica. Inizia a combattere. Dopo l’azione dell’8 agosto ne segue una seconda il 21. Un ufficiale gli legge le novità giudiziarie e viene messo al corrente della sua condanna a morte in contumacia con relativa confisca dei beni. La sua famiglia piange miseria. Battisti legge e scrive appena può. Confessa che sotto le tende “la vita del campo ha spezzato le barriere tra classe classe”.Tutti uguali di fronte al pericolo, di fronte alla morte. A metà novembre è sottotenente e il 13 novembre viene inviato sul Monte Baldo dove assume il comando della 258esima compagnia del battaglione Val D’Adige. Poi dal Baldo Battisti e i suoi avanzano fino a Carna Piana. Trascorre il natele nel paese di Lobbio devastato dagli austriaci, poi è a Malga Zunes e si guadagna una medaglia partecipando a un aspro combattimento dove muoiono trenta alpini. L’8 gennaio del 1916 riceve l’ordine di mettersi a disposizione del servizio informazioni e il 22 prende servizio nel VI Corpo degli alpini, studiando le zone e le cartografie per le rotte di guerra. Il 26 maggio riprende la strada del fronte al comando di una compagnia del Sesto Alpini del battaglione di Vicenza. Tra i suoi ufficiali c’è anche Fabio Filzi, trentino di Rovereto. Non sa se temere di più la morte o la cattura come è capitato a quel suo amico, Damiano Chiesa, di Rovereto, catturato e impiccati dagli austriaci a Trento. Gli austriaci avanzano sempre più. L’obiettivo diventa la conquista del  monte Corno, estrema contrafforte del Pasubio. E’ un’inutile, tragica sofferenza. Tra strapiombi e valli scure, con frane ovunque, Battisti si arrampica, ma gli austriaci sparano e ci sono decine di morti, oltre 50 feriti, tredici dispersi. L’obiettivo è prendere il Corno nella notte tra il 9 e il 10 luglio. Niente da fare, altri morti e Battisti con Fabio Filzi e gli alpini sopravvissuti sono catturati. Li riconoscono. Sono i due traditori. Prima ancora di aprire il processo farsa a Trento sono già fissate data e luogo dell’esecuzione. Quattro soldati stanno scavando la fossa e da Vienna sta arrivando il boia, convocato per la teatrale messinscena dell’impiccaggione. Intanto Battisti e Finzi vengono incatenati e portati a Toldi nell’area di Rovereto, dove dalle finestre inveiscono contro i due. Gli lanciano contro di tutto, sassi, sputi. Il giorno dopo vengono caricati su due carrette a cavallo e arrivano a Trento. Sono rinchiusi in carcere. Poi l’indomani il processo dura un’ora e mezza e via, su una carretta scoperta Cesare Battisti, col vestito civile, oltraggiato da una folla isterica,si avvia al patibolo al castello del Buonconsiglio. Il boia ha in serbo una macabra messi scena. Tiene una corda sottile e l’avvolge nel collo di Battisti. Poi al momento dell’esecuzione la corda si spezza tra la sorpresa della solita folla che inneggia al sangue. Ma in tasca il boia teneva la corda buona che stavolta riesce a consumare l’atroce delitto. Poco dopo sarà la volta di Finzi. I due cadaveri rimangono appesi fino alle 23. Poi i due corpi verranno gettati in una fossa comune all’interno del castello. Ricoperti di calce e di terra. Poco prima un soldato austriaco aveva lanciato una pietra contro la testa di Battisti. Filippo Turati nella seduta straordinaria del Consiglio comunale di Milano vorrà ricordare Battisti come “un socialista di principi e d’azione. Coll’esempio, coll’immolazione volle dare ai fratelli una nazione”. Gaetano Salvemini, molto colpito dalla morte dell’amico scirverà una lettera alla moglie Ernestina e tra l’altro vorrà così ricordarlo “Battisti doveva essere nell’Italia di dopo la guerra il rappresentante della parte migliore delle nuove terre italiane, di quella parte che ha visto nella gueerra un dovere da compiere, un ideale da realizzare. Battisti doveva essere un dei protagonisti nel lavoro di ricostruzione che sarà necessario dopo la guerra (…). Battisti lascia vuoto nella vita pubblica un posto che nessuno potrà occupare e che pure il nostro paese aveva bisogno che fosse degnamente occupato. E’ una grande sventura nazionale questa che ci colpisce. E io ne provo un senso di disperazionee di smarrimento”. Battisti poteva rappresentare la guida più credibile del socialismo italiano del dopoguerra, infatuato dei miti sovietici e rivoluzionari e poi colpito al cuore dall’avanzata fascista? Certo poteva rappresentare il punto di conciliazione più autorevole e credibile tra socialismo e patriottismo, che il Psi non seppe o non volle interpretare. Il messaggio di Salvemini diventa quasi profetico: “L’angoscia più grave è che vedo il nostro paese privato di una grande forza intellettuale e morale insostituibile, e vedo allargarsi nello spazio rimasto vuoto le influenze malefiche degli speculatori dell’irredentismo”.

Ridare una piazza a Battisti a Reggio Emilia

Nessuno mi saputo spiegare il motivo ma qualche anno orsono la piazza Cesare Battisti di Reggio Emilia è stata definita così: Piazza del Monte, già Cesare Battisti. Si è trattato di una scelta di cambio della toponomastica cittadina per ripristinare gli antichi suggestivi e caratteristici nomi? No, perché questo mutamento è stato riservato solo a piazza Battisti. Si è voluto colpire Battisti come patriota, come combattente, oppure come l’oratore al teatro Ariosto mentre fuori la tensione era all’apice e si verificavano gli incidenti prima richiamati? Non ha senso. Di fianco all’ex piazza Battisti c’è via Crispi, una delle strade più importanti e caratteristiche della città. Mentre Battisti era un socialista, Crispi, ex garibaldino, fu il più reazionario presidente del consiglio, liberticida e autore delle sanguinose repressioni contro i fasci siciliani. Per non parlare di Viale Umberto I, il mandante della tragica strage di Bava Beccaris a Milano. E potremmo continuare. Perché si scelto di sostituire proprio il nome di Cesare Battisti? Per ignoranza, per superficialità, perché patriota per di più proprio nella città del tricolore? Incomprensibile decisione, tanto più perché l’intestazione di quella piazza risale al 1916 quando l’amministrazione socialista guidata da Luigi Roversi volle dedicare a Battisti, a solo un anno dagli incidenti dell’Ariosto, la vecchia piazza del Monte, mentre a Crispi la via fu invece intestata dal fascismo, dopo che i socialisti l’avevano dedicata a Felice Cavalotti. Sia come sia, siamo ancora in tempo a rimediare all’errore. E che a Battisti, al socialista e all’eroe italiano, venga ridato l’onore che merita anche da Reggio Emilia nel centenario del suo martirio.

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