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INTERVENTO ALLA CAMERA SULLA FIDUCIA AL GOVERNO PRODI

Sig. presidente della Camera, onorevoli colleghi,

desidero innanzitutto ringraziare l’ufficio di presidenza della Camera per aver accolto la nostra richiesta di deroga relativa alla formazione di un gruppo autonomo composto dalla lista Dc-Psi, che si è presentata alle recenti elezioni politiche e, in base alla legge elettorale approvata, ha ottenuto una sua rappresentanza parlamentare.

Sig. presidente del Consiglio,

avremmo preferito si fosse formato un governo di ampie intese parlamentari, dopo consultazioni che hanno diviso il corpo elettorale esattamente in due, con una Camera in bilico e una corroborata da un premio di maggioranza conseguito per un briciolo di voti.

Che poi al Senato la maggioranza sia stata raggiunta grazie al voto degli italiani all’estero ciò non ne diminuisce il significato, anche perché è stata la stessa Casa delle libertà a volere la legge che va sotto il nome del suo tenace propugnatore Mirko Tremaglia. Né a noi pare un fatto anomalo che essa sia stata poi ulteriormente allargata col voto dei senatori a vita. Conosciamo l’atteggiamento dei senatori a vita, generalmente favorevoli ad accordare la fiducia ai governi, a qualsiasi governo. Prototipo del senatore consenziente coi governi fu Gianni Agnelli che tra il 1994 e il 1996 votò la fiducia sia al governo di centro-destra sia a quello di centro-sinistra, e sia anche a quello, né di centro-destra né di centro-sinistra, presieduto da Lamberto Dini. E ciò nella piena continuità con l’atteggiamento della Fiat, che nel Novecento è stata a favore dei governi liberali, di quelli fascisti, di quelli democristiani e post democristiani. Un atteggiamento filo governativo a-ideologico, diciamo così.

Avremmo preferito un governo di ampie intese perché più consono agli interessi del Paese e più in linea col risultato elettorale.

In fondo è evidente a tutti la crisi del bipolarismo nostrano. Non parlo del bipolarismo in sè, una schema che è decisamente entrato nella testa della gente anche in Italia, e che è efficacemente praticato in tutta Europa, ma di questo assurdo bipolarismo, che porta alle coalizioni di partiti eterogenei, ma tutti indispensabili per vincere, contrariamente al contesto europeo, dove si fronteggiano formazioni di ispirazione socialdemocratica e democristiana o liberale. In Italia, invece, si formano due blocchi indistinti, eterogenei e indispensabili per vincere, ma non certo utili per governare, giacchè l’assorbimento anche dei diversi porta a difficoltà di convergenze programmatiche tutt’altro che facilmente superabili.

A buona ragione l’Unione può vantare l’elaborazione del suo programma, un programma, però, frutto di infinite mediazioni, un lungo elenco di obiettivi e di promesse, che dice e non dice, sia per quanto riguarda la politica estera, sia per ciò che riguarda i principali problemi di politica interna. E di fronte al quale ogni partito coalizzato continua a sottolineare la sua diversità, oggi peraltro ancor più legittimata da una legge elettorale che ha partorito parlamentari eletti da liste di partito e non già di coalizione.

E’ mancato quel coraggio riformista che ha portato in Germania l’ex cancelliere Schroeder, in nome degli interessi del suo Paese, a preferire una maggioranza col suo avversario elettorale Merkel, a una maggioranza con l’estrema sinistra di Lafontaine, che non mi risulta sia mai stato comunista, ma certo massimalista sì.

Sarebbe come se in Italia Prodi avesse preferito formare una maggioranza con Berlusconi, piuttosto che comporre una coalizione con Bertinotti, Diliberto e Pecoraro Scanio.

In Germania lo si è fatto, in Italia no. Certo in Italia la coalizione è stata composta prima delle elezioni e come tale ha chiesto il consenso al corpo elettorale. Ma l’elettorato non ha dato a questa coalizione che una maggioranza risicata. Così, oltre all’errore di preoccuparsi solo di vincere e non di governare, compiuto mettendo insieme riformisti, massimalisti, pezzi di Confindustria e giornali dei poteri forti, si è preferito perseverare, dopo un risultato modesto che avrebbe dovuto consiliare quanto meno una riflessione, se non una vera e propria revisione di atteggiamento.

Tuttavia noi riteniamo legittimo il suo governo, sig. presidente e ci comporteremo come una opposizione democratica e costruttiva, capace di mettere sempre in evidenza le contraddizioni politiche e programmatiche dell’esecutivo e della maggioranza parlamentare che lo sostiene e di proporre soluzioni in grado di offrire sbocchi diversi al Paese. Non occorre molta fantasia per mettere in evidenza le contraddizioni del suo esecutivo.

Per quanto mi riguarda vorrei segnalarne tre.

La prima, a vista d’occhio, riguarda i processi politici avviati dai più grandi partiti della maggioranza.

Ds e Margherita pensano di creare in Italia un partito democratico, un partito che non esiste in nessuna altra parte del mondo se non negli Stati Uniti, un partito che non esiste in nessun’altra nazione europea. Sono intanto stati formati gruppi unificati alla Camera e al Senato con presidenti unici. Mentre questo avviene nelle due Camere, nel governo del Paese si è assistito ad un revival degli interessi di cassetta dei due maggiori partiti. Ds e Margherita hanno preteso una quota di ministeri per ciascuno di loro, lottizzando la compagine governativa e arrivando al punto di designare due diversi vice presidenti del Consiglio, uno per ognuno dei due partiti, che si ritrovano così uniti nel Parlamento e divisi nel governo. A tale unificazione parlamentare si è dato un significato politico, di avvio del processo che dovrebbe condurre al partito democratico. Ma a tale unità ha corrisposto, invece, una nuova divisione

Margherita e Ds sono uniti, insomma, nella fase della discussione, ma restano divisi nella gestione del potere. Ci pare una contraddizione particolarmente significativa dei rapporti tuttora presenti tra i due principali partiti della maggioranza, degli ostacoli e delle difficoltà peraltro nei giorni passati richiamati anche nei fondi dell’amico “Corriere della sera”.

Una seconda contraddizione, ancora più evidente, sempre sul piano politico, riguarda il rapporto tra i riformisti e libertari della Rosa nel pugno e i l’identità comunista presente all’interno della sua maggioranza. Parlo del caso Emma Bonino, del quale tanto si è discusso nelle scorse settimane.

Ho letto che l’on. Diliberto, segretario del Partito dei comunisti italiani, ha affermato che la Bonino non poteva ricoprire l’incarico di ministro della Difesa perché non è pacifista, cioè non si è dichiarata così espressamente contraria alla guerra in Iraq e al ritiro immediato del contingente italiano.

Ora credo, conoscendo il passato di Emma Bonino, che se si chiedesse a qualsiasi italiano minimamente informato di politica, chi è più pacifista, nel senso di chi ha lavorato di più per la pace, tra la Bonino e Diliberto, il risultato non sarebbe certo così favorevole al dirigente comunista.

Ma mi chiedo in generale quali siano stati i criteri di valutazione all’interno di questa maggioranza.

Si è scritto che con l’elezione alla presidenza della Camera di Fausto Bertinotti, sulla coerenza del quale nessuno credo abbia nulla da eccepire, e dopo ancora, con l’elezione di Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica, si definitivamente superato il fattore K. Penso che sia certo un fatto positivo aver liberato energie, discriminate in base al loro passato o alla loro identità, per rendere un significativo servizio al Paese, visto che da anni ormai il comunismo è scomparso dalla faccia dell’Europa.

Però qui tira tutt’altra aria. La candidatura di Giuliano Amato alla presidenza della Repubblica, che avrebbe potuto contare su ben più largo consenso di voti non è mai stata avanzata perché, si è scritto, egli non faceva parte dell’album di famiglia, cioè non è mai stato iscritto al vecchio Pci. D’altronde, come salutare la fine dell’effetto K, affidando l’incarico di sfondamento ad un candidato ex socialista?

Così, pure nella querelle Diliberto-Bonino ha dovuto cedere non già il comunista, ma la libertaria, laica e socialista.

Ci sembrano tempi un po’ strani, questi, signor presidente. Tempi in cui anche la storia può essere ribaltata e con essa le sue ragioni.

Aggiungiamo a queste due contraddizioni politiche anche qualche contraddizione di ordine programmatico.

Ha scritto, non un uomo di centro-destra, non un vostro nemico, ma Michele Serra, su La Repubblica. “In quindici minuti i nuovi ministri hanno abbattuto il Ponte sullo Stretto, rivisto la Tav, abolito la Legge sull’editoria e la festa del 2 giugno”.

Altro che politica del cacciavite, signor presidente del Consiglio, qui siamo alla politica del piccone (non me ne voglia il presidente Cossiga per averne richiamato l’identità).

Liberi di decretare la morte del Ponte sullo Stretto, definito dal nuovo ministro dei Trasporti (a proposito che errore dividere Infrastrutture e Trasporti, siamo tornati a sei anni fa) “l’opera più inutile e dannosa” degli ultimi decenni. Liberi di ravvedervi, giacchè quest’opera voluta fortemente dal presidente del Consiglio Bettino Craxi e introdotta nel programma elettorale del Psi nel 1992, venne accolta dai governi Prodi 1, Amato e D’Alema. E oggi inspiegabilmente ripudiata. Ripudiata per la verità già nel programma dell’Unione. Vedremo se il ripudio costerà, come dicono i tecnici, quasi come la realizzazione dell’intera opera. Sarebbe davvero un paradosso incomprensibile e inaccettabile. Ma che dire della Tav, e in particolare della ferrovia Torino-Lione, definita opera indispensabile e strategica dalla Comunità europea e inspiegabilmente contestata da alcuni partiti di governo, incapaci di non respirare l’aria dei sit in e delle manifestazioni di piazza, nella più coerente tradizione antiriformista.

Chi conosce la storia sa che caratteristica dei riformisti è quella di saper dire dei sì ma anche dei no agli umori della piazza, come fece Turati in occasione del primo sciopero generale del 1904, come fece Nenni nel 1968, come fece Craxi in occasione del referendum sulla scala mobile del 1985.

Non può avere capacità di governo chi sa dire solo e sempre sì alla protesta, per contestare strumentalmente una scelta e per catturare qualche consenso in più. Così si può fare della buona propaganda, ma così non si governa un Paese

La difficoltà di intesa sulle vicende relative alla Tav hanno portato, sia nel programma dell’Unione sia nelle dichiarazioni del presidente del Consiglio, a una grave dimenticanza relativa alla ferrovia Torino-Lione, determinante per il corridoio 5, che da Lisbona dovrà raggiungere Budapest e Kiev passando attraverso il Nord dell’Italia. Si parla solo di “assi Nord-Sud ed Est-Ovest che interconnettono l’Italia alla grande rete infrastrutturale europea”. Una dimenticanza frutto non di un errore, ma di un contrasto irrisolto.

Tanti auguri a Massimo D’Alema che si appresta, da neo ministro degli Esteri, a varcare l’Oceano per incontrare Condoleeza Rice.

Credo che voglia rassicurare il più importante alleato italiano che il rientro del contingente dall’Iraq che, come dice Prodi nelle sue dichiarazioni programmatiche, non è più “immediato”, ma promosso “nei tempi tecnici necessari”, attuato con “la consultazione di tutte le parti interessate” e garantendo “condizioni di sicurezza”, avverrà senza mettere in discussione l’amicizia e la collaborazione dell’Italia con gli Usa.

Non ho letto, signor presidente, la cosa più importante, quella che avrebbe maggiormente onorato i nostri caduti che lei giustamente richiama. E cioè che la nostra missione non era una missione di guerra, che l’Italia a questa guerra non ha partecipato, come gli Usa o la Gran Bretagna. La nostra era una missione militare di pace, delimitata dai principi stabiliti dalla comunità internazionale. Questo riconoscimento avrebbe davvero reso in una luce più chiara il sacrificio di vite di nostri connazionali che anche noi vogliamo onorare come si meritano, come nostri figli inviati in terra straniera dal nostro Paese, e divenuti martiri per fini nobili e non biechi, per servire e garantire una debole, nuova democrazia aggredita dal terrorismo.

Vi attendiamo al varco anche sulla politica economica e sociale. E in particolare sulla riforma della legge Biagi, Biagi e non 30. Biagi come il nome di una nuova vittima del terrorismo interno, che in vita ha coerentemente lavorato per individuare nuove frontiere per produrre lavoro per i giovani e le donne e garanzie in un mercato in continua evoluzione. Un riformista, socialista, che non merita di essere sostituito con un numero.

Se il problema è quello di aggiungere alla legge Biagi i cosiddetti ammortizzatori sociali, maggiori garanzie per chi deve passare da un lavoro a un altro, minore precarietà come si dice, niente da obiettare. Servono risorse e non poche e se ci saranno non saremo certamente noi ad opporci. Ma se il tentativo è quello di gettare a mare la legge, come vogliono i partiti dell’estrema sinistra e la Cgil, noi ci batteremo, anche in nome di Marco Biagi, per contrastarvi. Anche perchè la Legge Biagi ha contribuito ad aumentare di diverse centinaia di migliaia i posti di lavoro in Italia e si tratta in massima parte contratti a tempo indeterminato.

Sig. presidente del Consiglio,

il suo governo è il più popoloso della storia della Repubblica italiana. Si compone, se sommiamo i partiti che hanno espresso parlamentari o membri dell’esecutivo, di tredici componenti politiche (da sinistra a destra: Rifondazione comunista, Pdci, Verdi, Ds, Idv, Rosa nel pugno, Partito dei socialisti italiani, Repubblicani europei, Margherita, Udeur, Psdi, Partito dei pensionati, Lega lombarda).

Forse la scelta è stata ispirata alla scaramanzia. Il tredici è un numero che porta fortuna. Resta il fatto che tenerli tutti insieme sarà molto complicato e a lei spetta un duro lavoro di mediazione e di repressione, anche. Del resto lei, sig. presidente, ha invitato i suoi ministri a non parlare e ad attenersi scrupolosamente al programma concordato, ben sapendo che il debutto non era stato al riguardo particolarmente edificante.

Nella prima parte delle sue dichiarazioni programmatiche, lei ha dichiarato: “Non ci sono nemici, né in quest’Aula, né fuori. Ci sono qui e fuori italiani che amano l’Italia come l’amiamo noi, ma che, legittimamente, coltivano priorità e auspicano scelte diverse dalle nostre. Non c’è un Paese da pacificare”.

E’ vero. Ed è giusto. Per la verità nel quinquennio passato, non sono mancate da parte di alcune vostre componenti tendenze che sottolineavano il contrario, che parlavano di regime, che equiparavano Berlusconi a una sorta di dittatore di stampo sudamericano “anni settanta” da sconfiggere anche per via giudiziaria. E i girotondismi, i morettismi, gli intelletualini da salotto, i giornalisti interessati hanno al riguardo anche fatto opinione. Credo che innanzitutto questo appello vada rivolto a loro, che pure hanno proseliti anche in Parlamento. Anche perchè, signor presidente del Consiglio, vede, c’è un vecchio proverbio cinese che afferma “E’ facile cavalcare la tigre, il difficile è discendere dalla tigre quando è in corsa”. Dunque non è difficile prevedere che costoro, cioè la nuova sinistra massimal-giustizialista, cominceranno a predicare anche contro di voi e tra un po’ ad accusarvi di non essere sufficientemente di sinistra, incontaminati, cioè in sostanza di non fare quello che vi dicono. Il vecchio Nenni diceva “C’è sempre un puro più puro che ti epura”. Questa è la storia bislacca di una sinistra che non ha saputo risolvere il conflitto tra riformisti e massimalisti ed ha costretto una parte di riformisti di ispirazione liberale a rintanarsi nella Casa delle libertà. C’è la sinistra del no, la sinistra demolizionista, quella della ruspa e non del cacciavite, signor presidente, che vi osserva e vi controlla. Penso che i prossimi mesi saranno decisivi per sapere se la vostra maggioranza se ne saprà liberare o ne diventerà schiava, come ha scritto quest’oggi Sergio Romano. Noi sapremo osservare con interesse questa dialettica. Vedremo dai fatti quale visione dell’Italia prevarrà. Se riuscirete, come credo sarà difficile, molto difficile, a domare le tendenze più radicali o se dovrete cedere ad esse. Per quanto ci riguarda sapremo sviluppare un dialogo e un confronto interessato con tutti i riformisti di qualsiasi parte e provenienza.

Sulle questioni più rilevanti non staremo con le mani in mano. E saremo lieti di instaurare un rapporto costruttivo perché, su questo lei ha perfettamente ragione, “il Parlamento è la sede naturale del confronto democratico fra maggioranza e opposizione”.

Vedremo come la sua maggioranza vorrà procedere sul tema delle riforme istituzionali ed elettorali. Credo anch’io, a prescindere dall’esito del referendum, che sia sbagliato procedere su questa materia a colpi di maggioranza. Lo avete fatto voi per primi nel 2001, a pochi giorni dalle elezioni politiche e per tentare un recupero di voti dal serbatoio leghista, lo ha fatto la Casa delle libertà producendo una riforma in senso federalista che ha perfino attenuato quella dell’Ulivo e una proposta un po’ pasticciata in fatto di poteri istituzionali.

Vi è la delicata materia della politica estera. Vi sono gli impegni internazionali dell’Italia, sui quali voi vi presentate certo non sufficientemente coesi.

Ma su ogni problema del Paese noi ci comporteremo come una forza responsabile, affidabile, coerente. Siamo e resteremo parte della minoranza, ma seguiremo tutti i movimenti e le tendenze riformiste presenti anche nella maggioranza.

Rappresentiamo due forze politiche, la Dc e il Psi, che hanno alle spalle una storia secolare, ma che non hanno trovato, dopo il 1994, eredi legittimi. Ci rendiamo ben conto. La nostra esiguità elettorale non ci rende altro che un seme. Un progetto, che riteniamo però più che mai attuale. Quello di ritornare a formazioni con una tradizione e una identità, superando così il sistema politico italiano composto da partiti di stampo botanico, con margherite, querce, rose e ulivi in primo piano o con formazioni di plastica e che ancora non sanno se più cattoliche, liberali o riformiste.

Non ci convince la “reductio a due” del sistema politico italiano. Da una parte un partito democratico, che in Europa non sa ancora dove proiettarsi, e dall’altra un partito delle libertà, liberale dunque in Italia, ma popolare in Europa. Noi siamo per lavorare, insieme, perché il bipolarismo italiano sia in linea con la tradizione italiana e con l’attualità europea. Perché dunque rinascano le forze di ispirazione democratico-cristiana e socialista. Noi siamo solo un seme. Siamo piccoli, il gruppo più piccolo della Camera dei deputati, ma non per questo rinunciamo a obbiettivi molto ambiziosi. A una speranza, più che a una proposta, a una speranza fondata sulla realtà e sulla logica politica, però. Questo ci ha messo in moto, questo ci convince ad esistere.

Io ritorno dopo 12 anni in quest’aula senza aver cambiato identità, partito e simbolo. Senza aver rinnegato e dimenticato, ma certo consapevole che l’Italia è cambiata e che i problemi di oggi non possono essere risolti con le ricette di ieri.

Ho lasciato nel 1994 le macerie del mio partito politico, coi suoi errori e con le umiliazioni e le persecuzioni di tanti che lanciavano i sassi avendo molti peccati sulla coscienza. Oggi molto è cambiato. Oggi il nome di Craxi, che allora era diventato tabù, fa comodo alla maggioranza e alla minoranza. E pur tuttavia ancora non si dischiude la porta della rinascita di una forza socialista, socialdemocratica, riformista. Tenteremo di operare anche per questo, ben sapendo che il passato non ritorna e che un progetto politico si realizza lavorando e sodo per gli interessi generali del nostro Paese.

Tanti auguri di buon lavoro, signor presidente del Consiglio, glieli faccio da emiliano ad emiliano, da reggiano a reggiano. Credo, mi permetta di sottolinearlo, che ne abbia davvero bisogno.